26 marzo 2007

saggina

ascoltare la pioggia cadere di notte.
domandarsi perché non si riescano a contare le gocce.
eppure si sentono, una ad una, che si ottundono sulla ringhiera, sul tetto, sull'olivo e sull'albicocco in giardino.
l'albicocco, in particolare, ha una voce sua propria, sembra lamentarsi con tono fermo e arancione.

pensare a teoremi. brevi teoremi, lunghi teoremi.
tesi dedotte da verità senza dubbi, dimostrate senza lasciare spazio all'opinione o al dibattito.
che bello dire e non essere contraddetti. che bello essere tutti d'accordo su principi comuni, ben radicati.
che strano concordare su norme di buon senso e procedere per assurdo per rafforzare gli assiomi.
se la democrazia fosse tutta matematica sarebbe certamente noiosa, ma funzionerebbe senza indugiare in vuoti da esportazione verso terre d'oriente.

la scopa di saggina è appoggiata al muro.
tutte le scope di saggina sono generalmente appoggiate ad un muro.
e il muro di solito è esposto a sud, in pieno sole d'estate.
il marciapiede è coperto da radi ciuffi d'erba appena tagliata.
con la scopa di saggina si spazza via l'erba dal rosso del cotto.
ma, alla fine, rimane sempre qualche rimasuglio sulle punte gialle della scopa.
che rimane appoggiata al muro, con il sole addosso, sporca di verde in basso a sinistra.

bussole magnetiche custodite in tabernacoli di cuoio.
indicano verso l'alto, senza puntare al cielo.
c'è chi per natura osserva di lato, ed è sottoposto a moti di deriva.
così si punta avanti e si procede diagonali, verso rocce e scogliere impreviste.
doveva esserci mare, oceano rotondo senza rive di terra.
invece no.
rimangono sedimenti di ritirate impreviste.

19 marzo 2007

tastiera

ahlan wasahlan, benvenuto.
kiif haalak, come stai? mabsuut, non c'è male, si risponde nella consueta lentezza lamentosa.
falafel scuri macchiano d'olio un sacchetto di carta marrone, mentre il pane sottile si piega, come un giornale, tra nubi gonfie di farina.
si paga in monete sudate e in banconote sgualcite nei chioschi di amman.
mancano soldi, poche piastre, maalesh, non importa.
occhi iniettati di sangue del deserto, faccia carbonizzata dal sole, voce di trinciato, una tastiera di pianoforte al posto del sorriso.
shukran, poi il discorso si perde, inframmezzato da lunghi jaani, incerti 'cioè' nel discorso di cortesia.
maasalam, arrivederci.

fumi neri di gasolio escono da mercedes color panna. clacson. stridio di freni e rotolamento sordo di pneumatici caldi sull'asfalto polveroso.

si sorseggia tè nero da un bicchiere di vetro, rovente, mentre in superficie una foglia di menta galleggia sbattendo sui bordi opachi.
odore di ceci bolliti, di agnello con cavolfiore, di plastica bruciata.
il cardamomo è dolce, come l'eccitazione in aroma di giava che provoca insonnia.

voce registrata di muhazzin, nell'alba gelida punteggiata di brezza sabbiosa.
sabah il kheer, buongiorno.
si arriva in cima al palazzo salendo scale strette, senza corrimano.
si esce sul tetto appiattito e ci si sdraia su un vecchio materasso, tra parabole puntate basse verso ovest e panni lasciati seccare.
da sotto, per strada, voci di ragazzini che giocano al pallone. i più piccoli vengono apostrofati dai più grandi con frequenti "hmar", asino.
ci si addormenta, mentre la pelle si lascia ustionare, le ultime gocce di saliva sono dolci di datteri, burro e semolino.

carsismo superficiale di ricordi annegati in luce bianca e costante.

14 marzo 2007

officina

due caselli dell'autostrada, posti a pochi chilometri l'uno dall'altro, sono collegati da una strada statale.
i rimorchi e le bisarche sbattono sull'asfalto caldo della primavera entrata in anticipo a gamba tesa.
automobili arrabbiate e scattose sgomitano tra i pochi spazi lasciati liberi.


ad un semaforo una ragazza attende il verde guardando le proprie mani appoggiate al volante.
alla sua sinistra, in un'altra auto, un uomo deve svoltare e nel frattempo gioca con lo specchietto retrovisore.
i loro sguardi si incrociano per un attimo.

rimangono a guardarsi.

sentono clacson sempre più nervosi.

non si muovono.

accostano, i cofani delle auto convergenti davanti
all'ingresso di un'officina.
scendono lentamente, con decisione.

si avvicinano scrutandosi inespressivi.
lui la abbraccia e le annusa i capelli.

non è possibile trovare il suo odore.

è così sfuggente, alato, incostante.

lei è immobile.
si staccano e si osservano.

lui sorride, lei è seria.


'ci conosciamo?'
'credo di no'
'infatti'

'mi presento?'

'non serve'
'd'accordo'

'vuole un caffè?'
'non vedo bar nelle vicinanze'

'sì, ce n'è uno tra un paio di chilometri'

'ma io devo andare di là, verso sinistra'

'già. io vado dritto, ma sono in ritardo'

'va al lavoro?'
'no, e lei?'

'io sì'

'già'

'già'
'credo sia meglio andare'
'sì, lo penso anche io'
'buona giornata'
un cenno per saluto, in risposta.

i motori si riaccendono.

i cofani si allontanano, divergenti.

dalla finestra sopra l'officina una donna osserva le due auto allontanarsi.

in sottofondo, alla radio, buscaglione canta guarda che luna, in bassa fedeltà.

06 marzo 2007

finzioni

serenità d'inverno in posa australe, passi stanchi di note in chiave di basso tra fioriture inattese e colori falsati.

sotto un lampione nella notte della città stanno due giovani. lui è lontano, mantiene distanze, aumenta il distacco. lei si avvicina, avvolta in una giacca troppo pesante, le gambe magre scoperte da una gonna troppo corta. parlano fitto, citano nomi e situazioni passate, cercano un punto di intersezione tra le loro vite che sembrano diventate rette parallele, binari estranei senza stazioni intermedie.
attori in prosa insipida.

la casualità geometrica delle orbite fa allineare stelle e pianeti, facendo stupire i passanti col naso all'insù.
tra vent'anni la prossima volta, no forse di più.
chissà dove sarò, se ci sarò.
ma dai, certo che ci sarai, ci saremo tutti.
è un evento unico però, per fortuna che il cielo è sereno e la notte piacevole.
tutti sono d'accordo nell'ombra discreta dell'eclissi di luna.
speranze.

dietro la vetrina del negozio chiuso due figure senz'anima osservano e non sperano.
finzioni.