23 settembre 2007

telaio

un uomo di media statura e con la barba siede in mezzo alle rotaie del tram.
aspetta.

aspetta che gli venga voglia di alzarsi.


è mattino presto, la prima corsa partirà tra poco.
guarda a sinistra, da dove il punto arancione diventerà sempre più grande.

guarda a destra, verso dove il punto arancione diventerà sempre più piccolo.

non sa decidere.

di fronte, un bar è già aperto.

vuoto di clienti. è troppo presto.

il barista sta bevendo il primo caffè della giornata e lo sta osservando.

è dietro la vetrina, con i riflessi gialli dell'alba lenta.


da sinistra si sente sferragliare.
eccolo.
lui rimane seduto, guardando il cielo.

in quel momento sta pensando ad un viso di donna.

è un bel pensiero. niente abbandoni, o tradimenti, o rifiuti.

anzi.


tuttavia rimane seduto.
il viso di donna è lì, lo guarda con sorriso sincero, leggermente di profilo.

un ricordo, una fotografia scattata poco tempo prima.
il sole troppo alto ha sovraesposto uno zigomo, rendendo poco leggibile l'incarnato.
dettagli.

il palazzo di fronte non gli è nuovo. si ricorda di quella finestra.
torna al passato, a quando era bambino.
una finestra scorrevole.
telaio nero, moderno per i primi anni ottanta.
da quella finestra vedeva la strada e il parco di fronte.
c'erano persone che camminavano e automobili che andavano avanti e indietro.

c'erano biciclette semplici, e motorini con la sella lunga e larga.
erano anni di cielo azzurro e stagioni definite.


da quella finestra si era affacciato centinaia di volte.

annoiato in attesa di un ritorno a casa, di una cena che tardava, di persone che mancavano e che sarebbero apparse presto dentro un'alfaromeo scura lì in fondo.

da quella finestra veniva chiamato per mangiare, mentre era nel mezzo della partita di pallone, assieme agli altri.

era sempre tardi o freddo o buio o qualsiasi cosa fosse male per gli adulti e indifferenza per i bambini.


ora è grande. non gioca più.

ma è ancora in attesa.
distingue chiaramente il barista, adesso.
è uscito e sta correndo velocemente verso di lui.
gli sta urlando qualcosa a proposito di spostarsi, di schiacciamento, di frenare, di aiuto.

si volta verso sinistra, attratto da un fischio di attrito tra parti metalliche.

scintille di freni e di elettricità appesa ad un filo.
il muso del tram è ora fermo a pochi centimetri dalla sua spalla.

si sta raccogliendo una piccola folla. sente due mani che lo sollevano da terra e lo tengono in piedi. sente voci.

nessuno descrive, tutti domandano o esclamano.

lui invece avrebbe voglia di descrivere a loro quel viso di donna.
e quel senso di sconforto che gli prendeva quando veniva interrotto mentre giocava.

11 settembre 2007

grafia

cara mamma,
so che non ti aspetti una lettera da me. sono ormai troppi anni che non mi faccio sentire. è dal funerale di lele, se non sbaglio. quel giorno mi sono tenuto in disparte, non volevo vedere mio fratello che andava sottoterra. scusa se non sono venuto a salutarvi, ma non avrei saputo cosa dire. o meglio, sapevo che qualsiasi mia parola sarebbe stata sbagliata. me ne sono andato presto, prima che qualche parente mi vedesse. non volevo dare spiegazioni, non volevo sentire domande. ho probabilmente sbagliato a venire, ma ormai è acqua passata.
vivo da solo, da qualche mese. nina se n’è andata. si è portata via anche nostro figlio. eh, sì, sei diventata nonna, oltre che suocera. lei è una ragazza svedese. l’avevo conosciuta a uppsala. ci siamo sposati in olanda, durante il viaggio di ritorno. non avevamo mai una dimora stabile. vivevamo per lo più in alberghi, nella periferia di grandi città, perché in genere sono meno controllati. lo so che nina non ha mai provato un senso di sicurezza al mio fianco. a volte mi chiedo perché abbia voluto sposarmi. conosceva il lavoro che facevo, sapeva che la nostra famiglia non avrebbe mai potuto essere normale, sapeva che non avrebbe mai potuto ricevere cartoline, lettere o cataloghi per posta, perché non avevamo indirizzo. voleva un figlio, a tutti i costi. io ho provato a farla ragionare, a farle capire che non gli avremmo potuto garantire un’esistenza serena. anche io lo voglio, un figlio, ma non ora, le ripetevo all’orecchio mentre lei piangeva silenziosa, con nordica dignità. le dicevo che entro pochi anni avrei smesso di fare quel lavoro, che avremmo vissuto di rendita, che avremmo potuto sistemarci sul serio. in verità, non mi sentivo abbastanza maturo per diventare padre. non sapevo essere responsabile di me stesso, pensavo, figuriamoci di un figlio. alla fine, però, è successo lo stesso. abbiamo avuto un bambino bellissimo. lei ha voluto dargli un nome svedese, perché di italiano, nei lineamenti, aveva ben poco. almeno così diceva lei. credo invece che dall’inizio avesse intenzione di ritornare in svezia con lui. è biondissimo, come la madre, forse anche di più. si chiama stig. assomiglia un po’ a lele, soprattutto quando tiene lo sguardo imbronciato. purtroppo negli ultimi tempi ho avuto molte difficoltà, sia con la legge sia che con quelli che pensavo essere dalla mia parte. sono stato tradito. mi hanno venduto. nina prima di andarsene mi ha detto che non lo faceva per sé stessa, ma per stig. io non le ho creduto. l’amore ha bisogno di reciproca stabilità per durare negli anni.
ho paura adesso, mamma. sono convinto che non ho diritto di fartelo sapere. io ho rinunciato a voi, spietatamente. non mi sono mai curato di conoscere la vostra opinione, il vostro stato d’animo. vi ho semplicemente rimossi, ottuso dalla mia presunzione e, forse, dalla mia insicurezza. ho conosciuto molti visi, ho stretto tante mani, di ogni dimensione, colore e forza. ho calpestato il suolo di quasi tutti gli stati dei cinque continenti. a volte, sai, guardo le mie scarpe, mentre aspetto un aereo seduto nella sala d’aspetto o mentre dormo vestito in un vagone letto. penso alla diversità dei terreni che hanno calpestato, alle condizioni del tempo alle quali si sono dovute adattare, alle corse e alle passeggiate tranquille in cui mi hanno accompagnato. ogni volta che pensieri di questo tipo mi assalgono, vengo preso da un senso di smarrimento. mi chiedo, quasi sussurrando, che cosa stia facendo, per quale vera ragione la mia vita sia così e non diversa. mi perdo a rincorrere a ritroso le scelte fatte, giocando una partita a scacchi al contrario, andando a tentoni tra gli anfratti della mia memoria per cercare di ricordare e capire.
prima avevo un porto dove approdare e si chiamava Nina. sarebbe troppo semplice dire che lei era tutto per me. forse è anche sbagliato. lei era semplicemente l’unica persona con cui vivevo quando non lavoravo. quindi in lei si riversavano tutte le mie attenzioni, e, nello stesso tempo, lei costituiva la mia unica speranza, il mio solo appiglio. le avevo affidato l’onere, forse troppo gravoso, di incarnare tutta la mia famiglia. doveva essere dolce e comprensiva come te, mamma. insieme, doveva rappresentare la disincantata lucidità di papà e la complicità incondizionata di lele. era evidentemente troppo per lei, magra vichinga dagli occhi di neve. quando ci si innamora, si cercano nella persona amata tutte le qualità che si vorrebbero. se non ci sono, si costruiscono, si finge di trovarle lo stesso. alla fine mi sono accorto che la nina che vedevo io la vedevo solo io, era una mia creatura, costruita secondo le mie regole. quando ho capito che non era leale, lei era già partita.
sono tornato in paese qualche settimana fa. guidavo lungo l’autostrada quando ho visto la nostra uscita, quella che prendevamo sempre quando si tornava dalle vacanze al mare. ho messo la freccia senza accorgermene. ho parcheggiato davanti all’edicola di via firenze. non c’è più il vecchio arturo. ci sono due ragazzette al suo posto. penso siano le nipoti. ho camminato per un po’ lungo la via principale. non ero del tutto sicuro di essere irriconoscibile. ho visto carlo, del bar centrale, che mi ha guardato in modo strano quando gli ho ordinato il caffè, come se mi riconoscesse. sono cambiato, mamma. mi hanno fatto cambiare i connotati, l’identità, l’accento. mi hanno costretto a diventare mancino. dovevano farmi diventare un’altra persona e ci sono riusciti. i miei ricordi, però, sono ancora lì, anche se faticano ad affacciarsi. ho imparato a ricacciarli dentro. me l’hanno insegnata loro, questa tecnica. non potrai mai cancellare il tuo passato nella tua memoria, mi hanno detto una notte durante il lungo periodo di addestramento, ma puoi imparare a domarlo, a renderlo inoffensivo. inizialmente ci sono riuscito. si stupivano anche loro di come io fossi diventato freddo e insensibile....

appoggia la penna senza finire la frase. osserva il foglio e la grafia piccola e nervosa.
sta affidando a quel pezzo di carta l'intera giustificazione della sua esistenza.
non sa a che indirizzo inviare la lettera.
non sa se verrà mai aperta.
sa solo che aveva un grande peso e ora, scrivendo, si sente meglio.

prende l'accendino e dà fuoco al foglio e alle sue parole.
getta la palla fumante e nera dentro il caminetto.
un odore dolciastro si sprigiona all'interno della stanza.
prende un bicchiere, versa del vino da una bottiglia senza etichetta.

mentre sente il bruciore della sorsata invadergli l'esofago e la bocca dello stomaco, pensa che deve trovare un'altra storia.
al più presto.
domani è già tardi e potrebbero scoprirlo.

06 settembre 2007

torace

si avvicina, si allontana.
abbassa la testa, la alza nuovamente.
si muove in maniera imperfetta, zoppica, saltella, trascina un piede, è storto con l'anca.
guarda dritto di fronte, c'è il sole che sta tramontando.
attorno la foschia della sera di un giorno d'estate.

ha una strada a destra. una piccola piazza si apre a sinistra.
è in salita. non ce la fa.
si ferma e respira a fondo. tossisce una volta. due. tre.
caverna di rumori è la sua gola. gli sembra di scoppiare.
ma è abituato. sa che passa.
una notte solo aveva sognato di esplodere e di sporcare il muro del vicolo dove dorme di solito.

poi qualcuno avrebbe pulito, con un getto d'acqua sotto la giusta pressione.

passa anche questa volta.
si deve fermare più a lungo. la tosse è stata forte, sa che l'ossigeno richiede tempo per tornare in quantità accettabili.
e per ridare coraggio a tutto l'ingranaggio del corpo.
si morde le labbra. c'è umidità. il sole non c'è quasi più, si è sciolto nell'orizzonte stagnante.
respira col naso. con la bocca. con tutto il corpo.
traspira tossine e malanni.
suda vapori freddi, poi caldi, poi freddi di nuovo.

il viso è bagnato e rosso. deve sedersi.
vede una panchina, la raggiunge, lento e insicuro.
si siede e allarga le braccia e il torace e il sorriso baffuto.
ora è stabile. si sente forte di nuovo.
come quando si faceva scavalcare dalle onde, rimanendo fermo e di spalle, in piedi, senza cadere.
sfidava forze più grandi di lui. e le vinceva.
nel frattempo l'acqua di mare curava piccole ferite, le seccava, richiudeva.

c'è chi canta i perdenti, e adora perdere assieme a loro.
c'è chi adora i forti, e li onora con mille imitazioni.
c'è chi avversa i deboli, e li uccide con metodi veloci.
c'è chi odia i vincenti, e vorrebbe vederli in rovina.

c'è anche chi è indifferente alla sconfitta e alla vittoria.
alla forza e alla debolezza.
c'è chi non piange di fronte ad una musica possente.
non la teme, non si sente tremare le ossa.
c'è chi non prova gioia a tornare, ad incontrare di nuovo.
c'è chi ama e non lo sa, tradisce senza volontà, rifiuta veloce e accetta con garbo altezzoso.
falso, vuoto.
morto.