24 novembre 2006

alluminio

prima o poi capita a tutti di trovarsi di fronte ad un barista rumeno in norvegia.
soprattutto se il suddetto barista rumeno ha lo sguardo di uno che è meglio tenersi amico. faccia allungata da picciotto corleonese, pizzo ben rasato, capello nero stempiato raccolto dietro la testa in una minuscola treccia, croce d'oro in risalto sulla maglietta nera, stivali neri con borchie sotto pantaloni neri ruvidi e rugosi.
gioca con i bicchieri da birra vuoti, facendoli roteare in aria e passandoli dietro la schiena con la sicurezza di un cecchino.
mastica gomma e dice: non è difficile, vuoi provare?

rifiuto, mentre osservo la ragazza bionda che canta con voce da gospel vecchi successi di quand'ero a scuola.
non sai che roma è stata costruita in un giorno, chiede all'esiguo pubblico gorgheggiando in dominore.

un irlandese basso, ben piantato, ma stranamente simpatico spiega al rumeno come far sparire bicchierini di cognac da sotto il cilindro di alluminio usato di solito per scuotere liquidi di vario gusto e colore. il rumeno lo ascolta, sorride, e dimostra di conoscere già il giochino.
il suo occhio dice: io la so più lunga di te, ma siccome mi sei simpatico non ti faccio portare sul retro in compagnia di ivan e gregor.

un norvegese indossa una giacca di pelle di dalmata. elegante come un magnaccia curdo ad amburgo, si avvicina ad una ragazza dai modi poco inibiti e inizia l'opera di corteggiamento.
l'azione procede per qualche secondo, poi la ragazza è distratta da un francese che le ronza attorno offrendole da bere. il dalmata non se la prende più di tanto, e decide di uscire in strada ad urinare nel centro della carreggiata, sotto la pioggia.

una voce da tenebre dell'oltretomba, amplificata dal microfono, intona my way per qualche secondo.
poi il proprietario della voce esce salutando il rumeno, tossisce e maledice il clima norvegese, sognando pastis bevuto al tramonto d'estate sul porto di marsiglia.

12 novembre 2006

leggero

ci sono arance sul tavolo e noci in una cesta di vimini, anch'essa sul tavolo, di fianco alle arance.
le arance non hanno contenitore, sono appoggiate lì, alla rinfusa.

la ragazza dietro il bancone ha il sorriso fresco e ingenuo di chi si sveglia presto al mattino, lavora nei campi bianchi di brina prima dell'alba, controlla gli animali e decide quando le olive sono da cogliere.
chiara è il suo nome, e chiara è l'espressione del suo viso. la voce è acuta, ma non fastidiosa, incerinerata in un costante accento locale che mette a proprio agio gli avventori frequenti.

le chiediamo il permesso di prendere una noce dal cesto, lei risponde che sono lì aposta, tralasciando la doppia 'p' che è solo motivo di complicazione nell'eloquio informale.
le noci sono scure nell'endocarpo resistente e schiette nel gheriglio gustoso, si accompagnano bene al vino bianco lievemente fruttato che ci viene versato fino all'orlo in bicchieri stretti e bassi.

fuori è buio d'autunno, dentro è festa lenta di chi non ha nulla da fare prima di cena.

chiara continua a mescere vino, bianco o nèro, pronunciato con la e aperta e strascicata dei padovani occidentali, già in sentore di palladiana prossimità.

è complicato discernere le singole parole degli inquilini dell'osteria.
tutto viene pronunciato come fiume in piena di dittonghi, le consonanti sono generalmente assenti, la tonalità delle voci, roche da fumo, si muove di poco attorno ad una nota bassa non facilmente identificabile. veloci scoppi di risa, soffocati da bestemmie frequenti utilizzate a chiosa o a conclusione di un discorso, si alternano a duri colpi di tosse, che necessitano di un sorso per rinfrancare la gola.


un uomo ci guarda e commenta sottovoce la nostra presenza al vicino di tavolo.
basta poco perché anche lui diventi parte della nostra esperienza, benedetta da un altro giro di vino.
severino è il suo nome, non poteva di certo chiamarsi francesco o luigi. veste una tuta da ginnastica pulita e ha gli occhi vispi di chi ha un sacco da dire.

inizia commentando il sapore del nèro, prima dissociando i singoli sapori poi riprendendo l'ensemble alla stregua di cànone jazz.
ci invita di nuovo lì per la fine della prossima settimana, quando sarà filtrato il cabernet.
'sono vigne giovani, hanno al massimo quattro anni', ci spiega con l'atteggiamento di un professore che ama la sua materia. chiara lo corregge dicendogli che l'appuntamento è non prima di un mese. lui emette una risata chissenefrega, l'importante è che il vino non manchi.

passa a filosofeggiare di mondo, dell'importanza dell'onestà, del ruolo dei giovani e dei vecchi.
lo fa senza retorica supponente dei protagonisti di osteria. è capace di ascoltare e di annuire con convinzione di fronte ai nostri argomenti. prima di dar ragione ad un nostro intervento, disegna un sorriso e rivolge lo sguardo verso il compare di tavolo, in cerca di condivisione di una verità rivelata. accenna al fatto che lui ha visto il mondo, è stato all'estero, in svizzera. il nome della città lo pronuncia veloce e chiude in fretta il discorso, quasi per timore di dover spiegare di più.

ci diamo appuntamento per un'altra volta, senza fissare date od orari. se ci troveremo, faremo festa e continueremo a parlare. in caso contrario, sarà per quando la sorte ci darà udienza.

deve tornare a casa, la moglie gli ha preparato la minestrina stasera, 'per stare leggero', imita lui con la sorniona consapevolezza di uno che si è mangiato cotechino e polenta tutto il pomeriggio, innaffiandoli col nettare di bacco.

prima di uscire si rivolge a me, in maniera umile, quasi a volersi giustificare. usa il dialetto, la sua lingua sincera. 'io sono uno di bassa poesia, dico solo quello che mi fa piacere. per il resto mi metto da parte'.
lo guardo allontanarsi, entrare in auto, fare manovra e scomparire nella sera.

alla tua salute, caro severino, di professione poeta incompreso in un mondo che ogni tanto dovrebbe fermarsi a bere un bicchiere con te.

08 novembre 2006

sostanze

nebbia sull'erba, sole malato di un pomeriggio d'autunno in mezzo alle fabbriche.
qui c'era il mare, o mar ghe gera.
ora il mare è strada d'accesso, pozzanghera oleosa senza odore di spiaggia.

si trova parcheggio in un senso vietato, si domanda permesso d'entrare e si ottiene un diniego elegante e deciso.

al di fuori il muro è scuro di ombra, appare stanco di sorreggere ripari a lavori pesanti.
suoni metallurgici, musica secca, botti e silenzi di carichi agganciati a motrici. pistoni di camion schiacciano vapori combusti ed emettono nubi nere da bocche di marmitte elevate al cielo.

si attraversano binari che non vedono mai vagoni in movimento.
sono tanti, si intersecano in un gioco di scambi comandati da qualche centrale nascosta e segreta.

la stanza dei bottoni controlla dall'alto piccoli trenini marroni, lunghi chilometri ma sempre fermi aspettando godot.
la radio emette tango singhiozzato da un bandoneón epilettico, mentre si attraversa un altro passaggio a livello che collega strade dai nomi sinistri.
via dell'atomo, via dell'azoto, via della pila, via dell'elettricità, via dei sali... un compendio di chimica demente, entropia e guazzabuglio di sostanze che si accoppiano invasate.


un vecchio signore dal volto grigiastro sale dalla banchina con la canna da pesca.
lo fa per passare il tempo, mi
dice. invece di andare all'osteria dal mattino a bere a stomaco nudo, come fanno molti rovinandosi il fisico.
lui all'osteria semmai ci va alla sera, dopo una sana giornata di pesca lungo il canale dei petroli.
il pesce non lo mangia, cimancherebbealtro.
una volta sì che si poteva, afferma poi poco convinto.
mentre carica l'auto tossisce e sputacchia, estrae una sigaretta da un pacchetto morbido e l'accende, volgendo un ultimo sguardo alla riva impastata.

mi ricordo di quand'ero bambino e usavo l'argent de poche per acquistare ghiaccioli colorati d'azzurro.