02 gennaio 2010

vite

guardi l’orologio da tavolo e non riesci a distinguere i numeri. i cristalli liquidi sono sbiaditi e il pulsante per illuminarli emette una timida luce verdina che rende ancora più irriconoscibili le cifre. ragioni che forse è ora di cambiare le batterie. ne hai comprato un pacco da sei il giorno prima, erano in sconto. sollevi il piccolo apparecchio, indossi gli occhiali da lettura e ne esamini il retro. per accedere al vano devi prima smontare la base. provi a pensare al giorno in cui avevi tirato fuori quell’orologio dalla scatola e lo avevi montato. non ti ricordi i tuoi movimenti, si sono persi tra i gesti veloci che durano solo il tempo della consapevolezza dell’azione. inizi a spingere lo sportellino verso il basso, come indica la freccia stampata sulla plastica. senti dolore alle mani. ti fermi e te le guardi. sono mani da vecchio. non sono mai state grandi, appartengono ad una persona che nella vita ha solo studiato e fatto l’impiegato. riprovi. lo sportellino non si sposta di un millimetro dalla sua posizione di riposo. appoggi l’orologio sul tavolo, con il retro rivolto verso l’alto e lo guardi curioso, massaggiandoti i polsi. c’è un piccolo foro alla base dello sportello. ti avvicini e ti accorgi che dentro c’è una minuscola vite che lo fissa. ti serve un cacciavite sottile e lungo. ne avevi uno, tanto tempo prima, che usavi per le lenti degli occhiali. era piccolo e rosso. chissà dov’è ora. si sarà perso durante uno degli ultimi traslochi. già, trasloco. avevi lasciato la casa, con la c maiuscola, quella fatta e voluta assieme. quella, l’unica, con il giardino dove mettevi i tuoi limoni e le tue piante con i fiori dai colori accesi. avevate studiato ogni vano, ogni nicchia. ti ricordi la faccia dell’architetto quando avevi pronunciato la parola “nicchia”. non era cosa comune creare spazi inutili dentro i muri dove mettere una lampada e un vaso colorato. ti piacevano i colori. lei ti aveva contagiato. dipingeva quadri senza senso, solo pennellate cromatiche senza bordi né contorni. dovevi scoprire tu la forma, in funzione del tuo umore e grado di astrazione. lei diceva che proprio la non definizione del titolo dell’opera era l’obiettivo della sua velleità artistica. un titolo limita, racchiude, soffoca. tu l’assecondavi. in cuor tuo pensavi che chi non riesce a dare un titolo è una persona che non sa cosa sta facendo. ragionamento a posteriori. troppo facile. in ogni caso ora hai un problema. devi svitare la piccola vite che blocca lo sportello delle batterie e non possiedi utensili adeguati allo scopo. apri il cassetto delle posate, ma i coltelli hanno la punta troppo larga. niente da fare. apri altri cassetti, ma non c’è traccia di qualcosa di adatto. vai in bagno e cerchi all’interno del mobiletto. trovi rasoio, tubetti di dentifricio da viaggio recuperati in alberghi senza identità, un pettine di plastica marrone che non usi da quando hai deciso di tenerti i capelli quasi rasati. un blister di aspirine scadute. ti guardi allo specchio, di sfuggita. hai gli occhi spiritati e stanchi. il collo è pieno di rughe. il viso è spento. sei vecchio, solo, e non hai i mezzi per cambiare le batterie ad un orologio. torni in sala, recuperi un coltello e provi a forzare l’apertura. sollevi la plastica facendo perno sulla vite che rimane fissa al suo posto. intravvedi le due pile, ma non riesci a toccarle. rimetti tutto in ordine dai un’occhiata all’ora. in fondo si riescono ancora a vedere le cifre. non benissimo, ma con gli occhiali e la luce giusta non ci sono grossi problemi. rimetti il piccolo apparecchio sulla mensola e capisci che hai voglia di fumare. non dovresti, te l’hanno proibito con veemenza. cardiopatie, coronarie o qualcosa di altrettanto minaccioso. ripensi all’immagine del tuo volto allo specchio e apri la finestra accendendoti la sigaretta. c’è luce fuori. illumina il mondo che se ne va da solo. osservi bene, sbuffando fumo acre. quello che vedi è niente.

niente, appunto. deserto.

scattoso