13 gennaio 2010

ribes

vidi un giorno una ragazza che dondolava per la città. sì, hai capito bene, ho usato il verbo dondolare. perché lei non stava semplicemente camminando, oh, no. lei si muoveva continuamente, prima a destra e poi a sinistra, e riusciva ad andare dritta. voglio dire, non era come l’andatura di un ubriaco. procedeva lungo la sua via, aveva un percorso ben preciso in mente, una meta insomma. ma per raggiungerla scuoteva la testa e il corpo, come se ascoltasse musica con le cuffie. no, non aveva cuffie alle orecchie, ho controllato. le passai accanto – dovetti aumentare di molto la mia andatura abituale - e la guardai di lato. niente cuffie. capelli raccolti in una coda, orecchie piccole, sorriso su labbra strette e rosse, occhi a fessura per mettere meglio a fuoco la luce. insomma, era il ritratto della felicità. mi sembrava che i suoi pensieri fossero sufficienti per vedere tutto bello, lucente, sereno, degno di essere affrontato. ti giuro, prima di quel giorno mai avevo incontrato una persona così, come posso dire, leggera? sì, leggera.

sì, lei si accorse di me. chiaro, per quanto fosse assorta nei suoi fantastici pensieri colorati, tuttavia non era completamente assente. si accorse di me e si voltò. mi guardò, senza interrompere la sua andatura, continuando a sbandare, sorridendo. io le camminavo accanto, come un cretino, la guardavo. non ho idea di che sguardo potessi avere, sicuramente assomigliavo ad un grande punto di domanda in giacca e cravatta. credo le sembrassi buffo. ad un tratto si fermò e mi parlò.

mi chiese se poteva aiutarmi. gentile, le risposi. ma no, non avevo bisogno del suo aiuto. e allora perché mi sta seguendo, mi domandò. domanda lecita, pensai. perché mi ha incuriosito. aprì gli occhi. erano enormi, verdi, rotondi. cosa l’ha incuriosita di me? ci pensai per qualche secondo, cercavo una risposta intelligente e adeguata. non la trovai e le dissi semplicemente: l’ho vista camminare strana, dondolava, e sorrideva dondolando. ti giuro, le dissi così, sai come sono io, non è che sia il tipo che si mette a parlare apertamente con gli sconosciuti, men che meno se si tratta di donne. eppure quel giorno mi sentivo forte, spensierato, curioso.
fece un gesto che mi ricorderò per il resto della mia vita. mi prese sottobraccio. te lo giuro su mia nonna. sottobraccio, come un vecchio amico, o un amante. avrei potuto essere suo zio, a dire il vero. zio e nipote sbandata, ecco cosa potevamo sembrare ai passanti che camminavano per quella strada in quel momento.
venga con me, prendiamoci un succo di frutta.

io non bevo succhi di frutta, ma lei me ne fece bere due. uno all’ananas e un altro al ribes. dolcissimo. partiamo dall’inizio. mi accompagnò in questo bar. era uno di quei posti moderni, bianchi, con mobili lineari, angoli acuti, riviste di design sul tavolo, oste con pochi capelli e gli occhiali piccoli e rettangolari. ordinò due succhi all’ananas. io odio l’ananas. se bevo qualcosa che non sia vino, mi faccio portare l’armagnac. succo all’ananas non lo bevevo da quando portavo i calzoni corti e giocavo a pallone usando gli alberi del parco come pali. eppure non osai contraddirla. mi teneva la mano, e dondolava giù per la sala, accompagnandomi ad un tavolino tra due porte.

bene, mi disse. bene, le risposi. siamo qua, continuò. così pare, apostrofai. avevo sete, si giustificò. io no, ma le faccio volentieri compagnia, continuai. può mangiare, mi venne in soccorso. preferisco bere controvoglia, risposi. le va bene l’ananas, domandò. penso di sì, accennai.

arrivò da bere. brindammo timidamente. sorseggiai quel liquido freddo, dolce e acidulo. mi domandò il mio nome e risposi educatamente. io mi chiamo anna stella, proclamò. annastella attaccato o staccato, completai interrogativo. cheglienefrega, commentò saggiamente. in effetti, mormorai. così vuole sapere perché dondolo felice per la città, arrivò subito al punto. mi giustificai farfugliando qualcosa che conteneva il ma-no-era-così-per-dire.

guardi, e aggiunse il mio nome pronunciandolo con attenzione (tremai), io sono felice perché non ho motivo di non esserlo in assenza di ostacoli evidenti. camminavo, c’era una bella luce, volevo salire su al parco, le mie gambe rispondevano ai miei comandi e trovavo il ronzio della città particolarmente melodico e adeguato a quel momento. pensa che sia pazza?

ti assicuro, avevo perduto le parole. non sapevo se fosse un sogno o uno scherzo. fissai i suoi occhi rotondi che mi stavano perforando e conclusi che era un sogno. eppure avvertivo distintamente il succo schifoso che attraversava il mio esofago e si depositava nello stomaco, mentre finivo il mio bicchiere in un goffo tentativo di prendere tempo.

ha ancora sete? annuii, meditabondo. fu così che ordinò il liquame al ribes. non parlò più. aspettammo che il cameriere tornasse e ci portasse la bevanda. mi misi a bere. quando finii quella robaccia fu come se si fosse rotta una diga dentro di me. le raccontai tutto, del lavoro nuovo, della casa non finita, dei vestiti di lei nell’armadio che non avevo il coraggio di aprire, del funerale di mia nonna, di te, che sei la persona di cui più mi fidi al mondo. insomma, furono decine di minuti di monologo. parlavo ai suoi occhi, che sembravano carta assorbente. condivideva con l’iride e le pupille, sentiva tutto, era una droga. ad un tratto non ebbi più niente da dire. ero esausto. lei si alzò di scatto e andò a pagare. non protestai, non ne avevo la forza. quando tornò da me mi disse: viene su al parco con me ad ascoltare la città dall’alto o sarà troppo occupato a riavvolgere il nastro che mi ha appena sbobinato addosso?

non aggiunsi altro. mi alzai dalla poltroncina bianca e la seguii.
scattoso

09 gennaio 2010

spiccioli

quant’è? cinquemila. troppo. troppo per te, ho la coda fuori dalla porta per quella cifra. non ci credo, ti offro duemila, ce li ho in tasca. non so cosa farmene dei tuoi duemila. ti devi accontentare, c’è crisi. no, tu sei in crisi, visto che hai solo duemila in tasca. senti, a me quel coso serve, ma non sono disposto a spendere cinquemila, è un prezzo fuori mercato. bello, sono io che faccio il mercato qui, se ti dico cinquemila significa che li vale. è il tuo ultimo prezzo? cinquemila? . bene, allora addio. addio.

sapevo che saresti tornato. ti offro quattromila. mica hai trovato da meno, in giro, eh? sì, ho trovato da meno, ma so che se dovessi avere problemi so come trovarti. eh, vedi, la garanzia e l’assistenza hanno un costo. appunto, ti offro quattromila sull’unghia. e io te ne chiedo cinquemila. dai, sono tornato da te apposta per chiudere la faccenda. ma la chiudiamo in fretta, basta che scuci cinque bei pezzi da mille e ci salutiamo. ascolta, io non ho cinquemila, arrivo a quattromila rinunciando ad un sacco di cose, tra cui il weekend romantico che avevo promesso a mia moglie. oh, poverino, dovrei commuovermi? non mi servono le tue lacrime, mi serve il tuo ok per quattromila e ci stringiamo la mano. amico? sì. quella è la porta, io non ho niente di cui parlarti a queste condizioni. sono sicuro che ci ripenserai. non ci ripenserò. vedremo.

come è andato il giro romantico? bastardo. è sempre un piacere incontrarti. senti, ti propongo un accordo. e perché dovrei ascoltarti? perché tu devi vendere, non puoi tenertelo lì a marcire. chi ti dice che non l’abbia già venduto? se l’hai fatto ti uccido. corro il rischio. l’hai venduto? diciamo che potrei essere in procinto di sbarazzarmene ad un prezzo più che ragionevole. cioè? settemila. prendi questa busta, ci sono cinquemila lì dentro, còntali, dammi l’arnese e poi non ti voglio più vedere. non hai capito che ora il suo prezzo è settemila? non bluffare, volevi cinquemila e ce li hai, ora basta. non sto bluffando, se rinuncio ai tuoi cinquemila adesso, tra un’ora ne posso avere settemila

[colpo di pistola, fumo, odore di bruciato, corpo che cade all’indietro, rumore sordo, sedia che si spezza]

[rimette in tasca la busta, corre all’armadio dietro al corpo ormai esanime, apre l’anta. non c’è niente. solo un biglietto: “mi hai ucciso per niente, l’avevo già venduto a diecimila il giorno prima che tu venissi da me la prima volta”]

[si siede, incredulo. prende il telefono, compone il numero veloce associato al tasto 2]

amore? sì, ciao, sono io. tra venti minuti sono a casa… sì, prepara pure… no, stiamo leggeri oggi a pranzo… sì, sto bene, è che non mi va di mangiare, mi hai detto che sto ingrassando e questa cosa me la sono segnata… sì, ti amo anche io… sì, raccontami, cosa ti è successo al supermercato?… ma sei sicura di non aver messo le monete in tasca senza accorgertene?… è difficile che la cassiera ti freghi con il resto, ma non si sa mai. comunque, non devi preoccuparti, sono solo spiccioli.

scattoso

02 gennaio 2010

vite

guardi l’orologio da tavolo e non riesci a distinguere i numeri. i cristalli liquidi sono sbiaditi e il pulsante per illuminarli emette una timida luce verdina che rende ancora più irriconoscibili le cifre. ragioni che forse è ora di cambiare le batterie. ne hai comprato un pacco da sei il giorno prima, erano in sconto. sollevi il piccolo apparecchio, indossi gli occhiali da lettura e ne esamini il retro. per accedere al vano devi prima smontare la base. provi a pensare al giorno in cui avevi tirato fuori quell’orologio dalla scatola e lo avevi montato. non ti ricordi i tuoi movimenti, si sono persi tra i gesti veloci che durano solo il tempo della consapevolezza dell’azione. inizi a spingere lo sportellino verso il basso, come indica la freccia stampata sulla plastica. senti dolore alle mani. ti fermi e te le guardi. sono mani da vecchio. non sono mai state grandi, appartengono ad una persona che nella vita ha solo studiato e fatto l’impiegato. riprovi. lo sportellino non si sposta di un millimetro dalla sua posizione di riposo. appoggi l’orologio sul tavolo, con il retro rivolto verso l’alto e lo guardi curioso, massaggiandoti i polsi. c’è un piccolo foro alla base dello sportello. ti avvicini e ti accorgi che dentro c’è una minuscola vite che lo fissa. ti serve un cacciavite sottile e lungo. ne avevi uno, tanto tempo prima, che usavi per le lenti degli occhiali. era piccolo e rosso. chissà dov’è ora. si sarà perso durante uno degli ultimi traslochi. già, trasloco. avevi lasciato la casa, con la c maiuscola, quella fatta e voluta assieme. quella, l’unica, con il giardino dove mettevi i tuoi limoni e le tue piante con i fiori dai colori accesi. avevate studiato ogni vano, ogni nicchia. ti ricordi la faccia dell’architetto quando avevi pronunciato la parola “nicchia”. non era cosa comune creare spazi inutili dentro i muri dove mettere una lampada e un vaso colorato. ti piacevano i colori. lei ti aveva contagiato. dipingeva quadri senza senso, solo pennellate cromatiche senza bordi né contorni. dovevi scoprire tu la forma, in funzione del tuo umore e grado di astrazione. lei diceva che proprio la non definizione del titolo dell’opera era l’obiettivo della sua velleità artistica. un titolo limita, racchiude, soffoca. tu l’assecondavi. in cuor tuo pensavi che chi non riesce a dare un titolo è una persona che non sa cosa sta facendo. ragionamento a posteriori. troppo facile. in ogni caso ora hai un problema. devi svitare la piccola vite che blocca lo sportello delle batterie e non possiedi utensili adeguati allo scopo. apri il cassetto delle posate, ma i coltelli hanno la punta troppo larga. niente da fare. apri altri cassetti, ma non c’è traccia di qualcosa di adatto. vai in bagno e cerchi all’interno del mobiletto. trovi rasoio, tubetti di dentifricio da viaggio recuperati in alberghi senza identità, un pettine di plastica marrone che non usi da quando hai deciso di tenerti i capelli quasi rasati. un blister di aspirine scadute. ti guardi allo specchio, di sfuggita. hai gli occhi spiritati e stanchi. il collo è pieno di rughe. il viso è spento. sei vecchio, solo, e non hai i mezzi per cambiare le batterie ad un orologio. torni in sala, recuperi un coltello e provi a forzare l’apertura. sollevi la plastica facendo perno sulla vite che rimane fissa al suo posto. intravvedi le due pile, ma non riesci a toccarle. rimetti tutto in ordine dai un’occhiata all’ora. in fondo si riescono ancora a vedere le cifre. non benissimo, ma con gli occhiali e la luce giusta non ci sono grossi problemi. rimetti il piccolo apparecchio sulla mensola e capisci che hai voglia di fumare. non dovresti, te l’hanno proibito con veemenza. cardiopatie, coronarie o qualcosa di altrettanto minaccioso. ripensi all’immagine del tuo volto allo specchio e apri la finestra accendendoti la sigaretta. c’è luce fuori. illumina il mondo che se ne va da solo. osservi bene, sbuffando fumo acre. quello che vedi è niente.

niente, appunto. deserto.

scattoso

29 dicembre 2009

ride

l’uomo che non si metteva il cappello nemmeno quando nevicava sbuffò alito gelato non appena uscì dalla porta del condominio. la temperatura era risalita dalle parti dello zero e il silenzio attutito della neve secca e pesante risuonava a volume nullo per il piazzale, la strada senza traffico e il canale poco distante.

qualche condomino, armato di pala e altruismo, aveva creato un passaggio stretto ma ben definito attraverso lo spiazzo. per girare attorno all’edificio e raggiungere il camminamento sull’argine, tuttavia, sarebbe stato necessario sprofondare i piedi fin quasi sotto al ginocchio e sperare di non perdere l’equilibrio.

il protagonista di questa storia, complici due o tre calici di barbaresco bevuti al buio in compagnia della voce di lucio dalla, puntò decisamente verso la neve. il cappotto era ben chiuso, le mani in tasca, le guance calde e i capelli ribelli. i primi passi furono incerti, lambiccavano la neve fresca affondando con rispetto. i successivi si fecero più sicuri, sebbene sempre più goffi e comicamente instabili. quando raggiunse l’argine, osservò l’acqua del canale, nera e gelida. nessuno in vista, si udiva solo il suono distorto di un’ambulanza che si allontana.

un cane passa, piscia e ride. le parole della canzone gli saltellavano in testa, mentre rabbrividiva, sbuffava e provava ad immaginarsi la risata di un cane che prendeva in giro un uomo malinconico alla fermata di un tram.

continuava a nevicargli addosso. si abbassò e raccolse una palla di neve con la mano. la strinse fino a farla diventare dura e compatta e la lanciò in acqua. plof.

si decise. il declivio dell’argine era illuminato dal lampione di fronte. non c’erano appigli visibili, solo un manto bianco e compatto. avanzò di un passo ma capì di non avere molte possibilità di rimanere in piedi. si sedette sulla neve e si lasciò scivolare in basso. a pochi centimetri dal canale si arrestò, rendendosi conto che qualsiasi movimento l’avrebbe spinto sott’acqua.

gli piaceva l’odore là sotto. un misto di muschio e legno bagnato. la corrente era veloce, evidentemente avevano aperto le chiuse. la neve era entrata sotto i pantaloni e iniziava a non sentire più le gambe.

la mia anima nel vaso, da una crepa vola via. gli apparve l’anima a forma di nuvola che si faceva strada attraverso la feritoia, conquistava il cielo e rendeva infinita la propria esistenza, trasportata dai venti.

i minuti passavano e lui non si decideva. si voltò verso l’alto e vide il segno del suo corpo che aveva scavato un passaggio verticale lungo il declivio. non c’era golena, solo una specie di gradino su cui aveva terminato la discesa. non sarebbe mai riuscito a risalire.

aiuto. troppo flebile era la sua voce. riprovò. niente. decise di gridare ad intervalli regolari, per concentrare al massimo l’aria. gli nevicava sugli occhi, sul viso, addosso al cappotto che ormai era quasi completamente bianco.

amico. amico. cosa fai.

si voltò e gli sembrò di vedere due occhi lucenti e un volto scuro. un indiano con un mazzo di rose.

stai bene. rispondi.

aiutami.

aspettami. ti aiuto.

un ladro di passaggio, con una certa cortesia, mi chiede “hai del fumo? sì. del fuoco? sì” e dopo il furto scappa via.

hai del fuoco. non scappare. ho freddo.

cosa dici?

niente. aiutami.

sì. sono qui.

non scendere, si scivola.

prima di chiudersi del tutto, i suoi occhi videro proiettili di ghiaccio, sempre più sottili, sempre meno percepibili, ovattati… poi il nulla.

si ritrovò disteso su una panchina. due persone gli erano a fianco. due facce scure e quattro occhi lucenti.

ecco qua. come stai. chiamo ambulanza? tu preso freddo. tu devi scaldare corpo.

annuì. si voltò di lato e vide un cane annusare un mazzo di rose gettato a terra.

un cane che passa e piscia. non ride. sorrideva invece l’uomo, senza volerlo, le gote congelate in una smorfia di lucida rassegnazione.

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11 dicembre 2009

pushback

c'è un villaggio, da qualche parte tra gli appennini, dove i giorni e le notti scorrono senza nessuno che se ne accorga.
l'ultimo abitante se n'è andato dodici anni fa, durante una tormenta di neve. ha caricato l'auto con le poche cose che gli erano rimaste da trasportare nella nuova dimora, ha acceso il motore, ed è sceso lungo i tornanti della strada ghiacciata. l'ultima curva, però, gli è risultata fatale. sarà stata la stanchezza, o forse il desiderio di essere già arrivato, di abbracciare sua moglie e di farci l'amore. tant'è che è andato dritto. i segni dei pneumatici sulla neve parlano chiaro: nessun segno di frenata o di scivolata, nessun estremo tentativo di correggere una rotta decisamente sbagliata. due linee parallele più scure che solcano il bianco, poi il dosso del colle, l'ombra che si stacca per qualche attimo da terra, il peso del motore.
l'impatto. il fuoco. l'esplosione.
l'hanno ritrovato una settimana dopo. pianti. urla. strazio. dolore di pochi, pensiero cupo in qualche altro.
oblio e nescienza dei rimanenti.
è estate, e la vecchia fiat si ferma nel mezzo dell'incrocio.
scende un uomo di media statura e con la barba. si guarda in giro. cerca un caffè, una sedia e un tavolo dove appoggiare il quaderno degli appunti.
niente. tutto chiuso. quello che doveva essere il bar ha la serranda chiusa e la scritta ‘totocalcio’ scolorata. sconsolato, risale in auto e si lascia per sempre quel posto alle spalle. è stanco di viaggiare, decide di rinunciare alla sosta e di puntare verso casa.
avrebbe voluto essere altrove.
un tardo pomeriggio di marzo stavo seduto bevendo tè zuccherato nella sala d'attesa dell'aeroporto kennedy.
guardavo fuori e c'erano nuvole minacciose che facevano risaltare il bianco e l'argento delle fusoliere degli aerei.
improvvisamente ci fu un lampo che rischiarò il piazzale, i trattori del pushback, le valige ammucchiate nei carrelli e sui nastri trasportatori, le tute gialle degli operatori addetti al controllo a terra e alla sicurezza.
la pioggia arrivò dopo pochi secondi. inizialmente fu un acquazzone intenso, che durò qualche minuto.
poi cessò del tutto. silenzio.
il vento iniziò a soffiare ad ondate, dapprima cadenzate in intervalli lunghi e intensi. poi sempre più frequenti, fino a diventare un unico grande getto d'aria che proveniva dall'oceano.
vidi una valigia gialla volare per venti metri, prima di sbattere contro un pneumatico di un boeing già carico di passeggeri.
a quel punto ero già in piedi e, come tutti quelli che erano nella sala con me, stavo appoggiato con la fronte al vetro.
l’annuncio arrivò poco dopo. aeroporto chiuso, voli cancellati fino a notte inoltrata. la compagnia aerea offrì un buono per un pasto al fast food. ci rinunciai. cercai una poltroncina in una zona poco affollata. provai a rilassarmi, facendo saltellare la mente tra sogno e percezione. mi ricordai di immagini lontane, verdi e soleggiate.
avrei voluto essere altrove.
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28 novembre 2009

compatto

l’uomo che teneva l’ombrello aperto anche senza pioggia indugiò per qualche secondo di fronte al banco dei formaggi. aveva due banconote di piccolo taglio nel portafoglio e qualche moneta color terra bruciata nella tasca destra, sotto il fazzoletto bianco. fu attratto dal senso di rotondità interrotta di una forma già iniziata di caprino stagionato, così scuro al di fuori e bianco compatto nella ferita triangolare interna.

si avvicinò al vetro freddo e incontrò lo sguardo di una ragazza bionda con le trecce che spuntavano dal cappellino basso e pulito.

‘desidera?’ voce sorridente.

‘vorrei un pezzo di quello. non tanto grande, è per me.’

lei tagliò con mano ferma un triangolo di dimensioni accettabili e lo avvolse con rapida cura attorno alla carta con il logo del supermercato. stampò un’etichetta chimica e adesiva e gli domandò se gli servisse altro.

no, rispose lui prendendo con la sinistra la sua cena, mentre con la destra teneva appeso l’ombrello al polso.

camminò pensando al vuoto attraverso corsie e scaffali. passò accanto ai sacchetti dei biscotti, alle schiume da barba, alle vaschette di tortelli freschi ripieni e di detersivi profumati. pagò il formaggio e uscì nel buio illuminato del parcheggio. aprì l’ombrello velocemente. era una serata secca e gelida, non pioveva da più di due settimane. scansò due automobili dai fanali strabici e attraversò la strada sulle strisce.

mentre si incamminava deciso verso casa, abbassò l’ombrello fino a toccare i capelli con le asticelle metalliche. aveva la sensazione che il pulviscolo del mondo lo volesse avvolgere. avrebbe tanto desiderato una protezione per gli occhi e per il viso. i passi erano veloci e intensi, lo sguardo a fessura, il disagio compresso nel volto.

qualcuno in bicicletta gli si mise accanto, alla stessa velocità. lui si sentì osservato e accelerò l’andatura. udì il cigolio della catena messa sotto sforzo per aumentare la velocità. si voltò di colpo e vide un sorriso curioso di una ragazza con gli occhiali dalla montatura perfettamente rotonda.

‘perché tieni l’ombrello aperto?’

non rispose.

‘non mi senti? guarda che non sta piovendo.’

‘lo so. ma mi sento meglio con l’ombrello aperto.’

‘hai paura?’

esitò un attimo e si fermò.

‘sì.’

‘di cosa hai paura? non ti stai bagnando, non rischi niente.’

‘tu non sai nulla.’

‘e cosa dovrei sapere?’

‘l’aria è malata, ci uccide.’

silenzio. solo rumore cadenzato di catena, ruote e portapacchi.

‘beh, non è l’ombrello che ti salva, allora.’

se la vide passare di lato e poi imboccare una laterale a destra, perdendola di vista. si alzò il bavero della giacca e inclinò l’ombrello leggermente in avanti. attraversò due semafori pedonali e vide il portone di casa. aprì, salì le quattro rampe di scale ed entrò nel suo appartamento, lasciando l’ombrello chiuso appoggiato alla parete sotto il citofono. il pavimento era bianco, così come i divani e i mobili della cucina. solo il tavolo era nero, lucido, senza impronte.

tolse la carta al formaggio e lo tagliò a piccole fette, che posizionò in ordine su un piatto largo e quadrato, leggermente concavo, con gli angoli smussati. prese due vasetti, uno di marmellata di fichi e un altro di senape al miele. utilizzò due cucchiaini diversi per versarne il contenuto accanto al caprino, cercando di ricavare un’apprezzabile geometria compositiva. completò con un filo di aceto balsamico. stappò una bottiglia di vino e ne scaraffò una parte, lasciandolo decantare. stese una tovaglia bianca e pulita e mise in funzione il giradischi.

finì di preparare la tavola e si sedette, mentre sonny clark già si divertiva con il cool struttin’. si posizionò un tovagliolo di carta verde sulle cosce, strappò un pezzo di pane vecchio di un giorno e iniziò a mangiare, augurandosi buonappetito da solo.

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23 novembre 2009

attorno

il fruttivendolo è colorato. il pescivendolo è bianco, forse con qualche macchia tendente al grigio e all’azzurro, qua e là. il macellaio è chiaro di sopra e rosso da metà in giù. l’edicolante è incorniciato e ha il cappello di lana che odora di petrolio. il barista è a mezzobusto e si stacca dal vetro delle bottiglie, come un pesce rosso con il grembiule nero. l’africano vende ombrelli tinta unita, ma non c’è traccia di pioggia, solo nebbia intasata a mezzo cielo. infatti, nessuno compra e tutti si sentono umidi, malconci e malinconici.

starnutiscono.

progetto scattoso