31 luglio 2007

trasparenza

curiosa tra le righe.
la lettera non è sua, ha aperto il cassetto di qualcun altro.
ha molto peccato, lo sa.
la tentazione è irresistibile.
legge, capisce, intuisce, ignora.

trova altre lettere, sempre dello stesso mittente.
tutte scritte a mano, con penna stilografica e grafia goffa.
è incredula. si sente implodere. le manca il respiro.
si alza e apre lo scuro della finestra.
la luce potente del primo pomeriggio entra ed illumina una valigia pronta per volare.

il passaporto è lasciato chiuso sul tavolo, di fianco alla chiave dell'auto a noleggio.
nella stanza accanto si sta consumando un amore.
anzi, si sta esaurendo un amore.
c'è un litigio in corso, si levano grida, assieme a frammenti di cattiveria mescolati a gocce di rabbia.

la porta viene sbattuta e lei rimane seduta sul letto.
i capelli sono nervosi, il viso è contratto.
ora è sola. deve ragionare.
prende il passaporto dal tavolo e lo sfoglia, senza guardare i timbri colorati di mezzo mondo.
sa che lui non andrà lontano.
senza passaporto, in un paese straniero, non si può fuggire, nemmeno per assenza d'amore.

il cantante chiede parole poco chiare e dice basta ad interpretazioni facili.
un uomo di media statura si concentra sul telaio della finestra di fronte.
sta asciugando un bicchiere da qualche minuto. era sporco di borgogna da pochi soldi e di sangue da labbra screpolate.
ascolta la canzone, che scivola via sulle note di un crescendo irresistibile.
sa che è senza documenti.
sa che non potrà andare lontano.
ma intanto gode della perfetta trasparenza e del luccichio bruciato del vetro sottile.


23 luglio 2007

lampione

voglio una comunicazione chiara.
quella che pochi sanno offrire.
quella che non si perde nel pleonasmo.
quella che non si confonde nella pura mancanza di stile.
quella che non si cela nella forma vuota.
quella che sa dire.

in una luminosa giornata d'estate, all'interno di un treno che taglia il piattume padano come un proiettile smussato, una giovane madre è seduta di fianco alla figlia.
le mette l'album da colorare davanti e le spiega cosa deve fare.
la sua voce è ferma, dolce, senza inflessione.
non vezzeggia, non starnazza, non emette gridolini.
parla. lentamente, con logica elementare.
la figlia capisce, e risponde. sorride e si fa sorridere.
è intenta a colorare. chiede conferma. viene redarguita. viene premiata con parole adeguate.
la bambina è stanca, frigna un po'. si fa capire. non ha più voglia di colorare, né di attaccare figurine.
la donna elegante le bacia la fronte, dice va bene, dai, metti via che tra poco arriviamo in stazione e dobbiamo cambiare treno.
"ma mamma, non ho voglia di cambiare ancora treno."
"non hai voglia? vuoi rimanere ancora qui? non ti sei stancata di stare in questo treno?"
"un po' sì, ma ci sto bene."
"vedrai che il prossimo treno sarà ancora meglio."
lo sguardo della bimba si posa allora sul vetro e su ciò che sta al di là.
palazzi di periferia. terrazze povere. strade di passaggio.
improvvisamente i binari si moltiplicano e si fa ombra, mentre il treno rallenta fino a fermarsi.
vittoria, è apostrofata dalla madre la bambina che ora indossa altezzosa uno zainetto colorato. entrambe si incamminano lungo il marciapiede, decise, con stile.
il dialogo non è più udibile.
alla fine della giornata saranno arrivate a destinazione, in qualche ortogonale città della svizzera.
staranno uscendo dalla stazione, incamminandosi lungo un viale, deliziosamente al tramonto, neanche a farlo apposta.
c'è silenzio sufficiente per far raccontare la cosa alla donna elegante.

sono le sei di sera e la città, almeno nella zona dove viviamo, è quasi vuota.
la osservo mentre corre per anticiparmi nel premere il pulsante della chiamata pedonale. indossa la giacca blu scura, come se ne vedono tanti tra i bambini della sua età. dietro è raffigurato il personaggio di un cartone animato che non conosco.

attraversiamo la strada in silenzio e continuiamo a camminare costeggiando il parco. la luce del tardo pomeriggio è pulita e si infila tra le fitte foglie degli alberi alla nostra destra.
lei si affianca a me e cerca di imitare il mio passo, tenendo lo sguardo fisso verso il basso, verso le mie gambe e i suoi piedi. ad un tratto sento la sua mano nella mia. gliela stringo, in modo goffo. ho paura di farle male, allento la presa. lei crede che non voglia tenderle la mano e si aggrappa al mio dito indice.
io vorrei tenerla per mano, ma semplicemente non so come si faccia.
procediamo in questo modo, mezzo metro che separa le nostre teste.
ogni tanto lei alza la sua e la vedo con la coda dell’occhio: tiene la bocca aperta mentre osserva il mio viso.
“a che pensi, mamma?”
la sua domanda mi coglie totalmente impreparata. non posso riferirle i miei pensieri. non li comprenderebbe.
“pensavo che stai proprio diventando grande”
lei si ferma, il viso si rattrista.
“lo sai che sono la più bassa della classe?”
in effetti, a guardarla con una certa attenzione, era piuttosto piccola. o forse no, era normale per la sua età, solo la testa era un po’ sproporzionata a confronto del resto del corpo. insomma, era una bambina, ad altezza bambina.
“vedi quanto sono alta io? bene, ti assicuro che quando avevo la tua età ero almeno dieci centimetri più bassa di te.”
il suo viso si illumina nuovamente.
“pensi che anche io divento grande come te?”, mi chiede, con un’espressione di attesa.
“se tutto va bene, anche più alta.”
“come quel lampione?”
la guardo e per la prima volta sorrido anche io, senza trattenermi.
“non pensi sarebbe un po’ scomodo essere alti come un lampione?”
lei ci pensa un attimo prima di annuire, convinta.
“lo so che non si può essere così alti. a scuola, la maestra antonella ci ha detto che tutto ha una giusta misura. giusta per quello che deve essere.”
e io che credevo che a scuola insegnassero solo a contare e a scrivere pensierini idioti. mi ricordo di aver letto da qualche parte che un bambino deve essere sempre spronato a pensare quando ha un minimo di iniziativa. così ci provo.
“vedi l’albero qui di fronte? vedi come sono fatti i suoi rami?”
lei alza la testa e, facendosi ombra con una mano, raggiunge con la vista la punta del platano.
“sono curvi.” mi dice.
“non direi solo curvi. sono bilanciati.”
a questo punto credo di aver sbagliato. forse ho parlato in maniera troppo complicata.
“cioè?”
infatti.
“cioè, se fossero tutti completamente dritti non finirebbero mai e arriverebbero altissimi in cielo. se, invece, fossero solo curvi, ora saremmo qui ad inciampare su di loro per strada. invece, come vedi, se ne stanno lì, come se lo spirito di vita che li porta al cielo fosse equilibrato dalla terra che li vuole tenere con sé.”
“una specie di tiro alla fune, mamma?"
“una specie”, le rispondo soddisfatta.

voglio l'onestà.
non quella intellettuale, che non significa alcunché.
non quella del vivere civile, che si sta riducendo ad essere la forma più blanda di ipocrisia.
ci vuole l'onestà vera, pura, semplice.
quella che si sposa con la trasparenza e rimane gravida di poche spiegazioni.

10 luglio 2007

altezzosa

poche linee che si incrociano, lampi di vetro ellittico che fanno penetrare nuvole gonfie e lacci di luce.
la perfezione si fa strada, avanza con andatura altezzosa, aggrotta il cipiglio come un vecchio professore che non accetta spiegazioni.
la pioggia cade sbattuta dal vento, il monte là dietro è offuscato dal grigio, cristàllino opacizzato da cataratta di tuoni.
sinestesie.
commistione disordinata di sensi diversi, mescita di odore e tatto, di vista e sapore, di suono e vento. gocce che si sciolgono assieme nello spazio concavo della medesima coppa.
triclinio, convivium, danze, ozio.

una musica di notte. è nota, è vecchia, scava nella mappa sgualcita dei ricordi.
le linee di vetro e acciaio sono ora stille di acqua che il tergicristallo spazza con isocrona precisione.
buio, luci fluorescenti di villaggi lasciati a riposare.
si canticchia, si ripetono parole in lingua straniera.
si sbagliano versi, accavallando i significati, ripetendo strofe già dette nella fuga della melodia.
applausi di una platea lontana, mentre il pianoforte sta già mescolando nuove note, scegliendo tra le dodici presenti nell'ottava.
le ottave stesse salgono e scendono, aiutate dalla voce roca e sicura di chi è abituato a gridare di notte canzoni d'amore e di vita.

un uomo di media statura si avvicina alla porta d'ingresso.
prova ad aprirla, ma il pomello non gira, serve la chiave.
si mette le mani in tasca e trova due chiavi, una piccola e una grande.
prova ad infilare la chiave grande nella serratura, ma evidentemente non è quella giusta.
allora, si mette d'impegno con la chiave piccola.
dopo pochi vani tentativi, si accorge che nemmeno questa volta riesce nel suo intento.
anzi, la chiave piccola rimane incastrata, con la testa leggermente piegata.

si guarda le dita. pollice ed indice mostrano sottili righe rosse, che stanno già lentamente scomparendo.