02 aprile 2008

battiscopa

è una bella giornata, piena di sole.
perché stare rintanati? perché permettere che tutto passi senza essere presenti?
mi sento protagonista, nel mio piccolo. voglio avere anche io la mia parte.
a questo penso mentre guardo fuori dal pertugio.
metto il naso fuori. annuso un po' l'aria.
insomma, c'è ancora la punta di gelo di un inverno che continua a voler dire la sua.
però c'è sole. suvvia. usciamo.
mi guardo intorno e non vedo nessuno.
già, dimenticavo. gli altri se ne sono andati da un pezzo.
non hanno voluto rimanere con me, non mi credevano. anche lei, la mia compagna, ha preferito posti più sicuri.
io sono rimasto da solo. per una volta nella vita ho voluto essere coerente con quello che sentivo dentro.
mi sono sentito di rimanere qui? bene. ora devo rendermi conto che sono solo e che mi devo arrangiare.
non posso avere ripensamenti, sarebbe per me una sconfitta troppo grande.
esco.
devo stare attento. è un posto che non conosco molto bene.
mi guardo attorno. vedo erba, mattonelle. cemento, una casa.
la terra è ancora dura. difficile da scavare.
continuo ad annusare. devo sentire odori che mi piacciano. a dire il vero inizio ad avere un po' di fame.
al mattino ho sempre fame. non so perché.
non c'è nulla che mi garba. sento il rumore lontano di quelle cose enormi che emettono fumi moribondi e che si muovono.
il vecchio michele lo diceva sempre. stai attento alle ruote. loro girano. sembra che vadano per i fatti loro, mentre in realtà sono sempre dirette verso di te e la tua schiena.
le ruote schiacciano. ti uccidono. e, nei pochi attimi prima di morire, senti puzza di gomma bruciata.

ho voglia di mangiare. ora è decisa, pressante. che faccio? posso mettermi a scavare, a cercare lombrichi o piccoli insetti.
onestamente, mi fanno un po' schifo. voglio qualcosa di più commestibile.
sempre michele, che la sapeva lunga, mi consigliava: 'se vuoi mangiare da re, devi entrare in casa'.
io ho provato ad entrare in casa una volta. ho cercato ingressi attraverso il camino, le grondaie, i tombini.
niente.
le porte si chiudevano troppo in fretta. sembrava che la gente avesse paura di condividere la propria intimità domestica con l'esterno.
insomma, non è bello. al di là che se mi chiudono la porta sul muso io non riesco ad entrare, ma poi, dico: perché chiudersi dentro? cosa c'è di così prezioso dentro in casa da doverlo nascondere al mondo?
bene, ho deciso. io voglio entrare in casa. mi schiacciasse un pneumatico, ma io voglio, pretendo, di entrare.
perché devo vivere in un buco scavato nella terra? perché non ho diritto anche io ad un po' di tepore? sembra quasi che la mia vita di essere piccolino valga meno della loro, così grandi, potenti e padroni di tutto.

continua a non esserci nessuno. bene.
mi avvicino al muro e inizio a seguirlo. voglio capire il territorio, misurarlo. mi sento un soldato in perlustrazione del territorio nemico. sembra una frase di un vecchio film di guerra. da notare che io non ho mai visto un film di guerra, come potrei. ma fa simpatico e coerente dirlo.
in fondo questa è la mia storia e uso le similitudini che voglio.
finito il giretto, mi fermo e rifletto. come da copione, le porte sono chiuse. le finestre pure. non ci sono accessi.

nel frattempo sento una goccia. due gocce. acqua. sta piovendo.
poco fa c'era sole. ora diluvia. potere delle mezze stagioni.
trovo riparo sotto una pianta, indeciso sul da farsi.

sento un rumore deciso. uno strofinamento metallico. una porta si è aperta.
di fronte a me, un uomo di media statura e con la barba osserva il cielo. non sembra felice della pioggia. è assonnato, si vede.
rientra in casa. esce poco dopo con un sacco azzurro. rientra. esce nuovamente con un altro sacco, arancione e un po' più piccolo. i due sacchi puzzano. l'odore disgusta anche me.
rientra.
ecco. ora o mai più. d'istinto mi lancio verso il pertugio che ha lasciato dietro di sè.
sono dentro. mi catapulto nel buio sotto una credenza. mi fermo e sento il cuore che batte senza ritegno.
sono in casa. sotto un mobile. non mi ha visto nessuno.

aspetto. non posso fare altro. ho osato troppo e non posso approfittare della buona sorte.
ci sono passi. non c'è solo l'uomo di prima. ci sono altre scarpe. c'è anche un omino più piccolo che cammina un po' incerto.
ogni tanto cade. ad un tratto ho paura che mi abbia visto. prima di rialzarsi mi indica con la mano. dice qualcosa che non capisco.
evidentemente, però, il suo eloquio non è così comprensibile nemmeno all'uomo di mezza statura e alla sua compagna. vedo che lo tirano su, e lo rimettono in piedi.
si muovono tutti in fretta. sento una voce veloce che domanda e un'altra che risponde con tono pacato.
ancora movimenti. si apre una porta. sbatte. silenzio.

non c'è più nessuno. avvicino il naso alla luce e annuso. sì. sono solo.
esco.
sono felice. percorro in diagonale la stanza. veloce.
cammino rasente al muro, sfioro lo stipite di una porta interna e sono in un altro locale, più ampio.
qui mi sbizzarisco. inizio a correre come un invasato. sfioro gambe di un tavolo, mi impenno sulla curva di un tappeto, sbatto sul morbido di un divano.
mi riposo. esausto.
l'eccitazione mi ha fatto dimenticare la prima ragione della mia avventura qui dentro. la fame. la voglia di un pasto decente.
ecco. la consapevolezza della fame mi ha fatto venire un crampo allo stomaco.
priorità, mi dico, devo andare avanti per priorità. prima mangio, poi mi diverto.

come spesso accade nei momenti in cui tutto deve andare bene, ecco che la storia prosegue ancora meglio.
infatti, sotto il tavolo, sparso in mezzo al tappeto, c'è il banchetto. briciole di pane, di formaggio. addirittura un pezzo di mela.
non lascio che il miraggio evapori. affronto il pasto in maniera chirurgica. mangio tutto.
buona norma vorrebbe che lasciassi qualcosa per i periodi di magra. ma, vista la situazione, non ho alcuna intenzione di seguire le buone norme.
ho fame e mangio quello che trovo. ho trovato tanto, quindi mangio tanto.

dopo essermi pulito per bene i baffi, decido che è ora di osare ancora di più: le scale.
mi appoggio alla parete e inizio a salire i gradini. all'inizio scivolo un po'. poi capisco il meccanismo e in poco tempo sono al piano di sopra.
con un fiato che non ritenevo di avere, corro per tutta la lunghezza del corridoio e mi fermo - sbatto, a dire il vero - contro una porta chiusa.
rimango un po' stordito. quando mi riprendo, sento rumori provenire dal piano di sotto. e odore di uomo.
sono tornati.
mi viene un po' di panico. non posso rimanere qui in bella vista. devo nascondermi.
ripercorro a ritroso il corridoio, cercando di entrare in qualche stanza buia. finalmente ne trovo una con la porta aperta a metà.
mi fermo sotto un armadio e aspetto.
l'attesa si fa lunga. mi siedo. mi rilasso. dormo.

mi risveglio ed è notte.
sento un odore fortissimo di respiro umano provenire dalla stanza. di fronte a me, mi pare di vedere l'omino piccolo che dorme, rinchiuso in un giaciglio protetto.
mi muovo. dovrei aspettare, ma ormai mi sento attivo. e ho di nuovo fame.
solo il pensiero di non aver messo da parte nulla, quando prima c'era abbondanza, mi fa sentire un cretino.
sarà il buio, sarà la fame, sarà l'adrenalina che ormai si è esaurita, ma mi sento totalmente sperduto.
sbatto contro il battiscopa e poi contro un piede del mobile.
sento che faccio rumore, troppo rumore. niente, non sono in grado di trattenermi.
mi sembra di essere ubriaco. anche qui, non è che l'abbia mai provato (e come potrei, diavolo, sono un topo!), ma lo affermo così, per sentito dire.

mentre barcollo col corpo e con i pensieri, ecco che inizia la fine.
mi fermo. cerco di stare immobile. sento due occhi che mi guardano nel controluce di una lampada accesa nella stanza accanto.
mi volto lentamente. il mio sguardo incrocia il suo.
è l'uomo di media statura e con la barba.
da quello che posso vedere la sua espressione è coerente con la situazione: assonnato, vagamente impaurito, pieno di sconforto.
esce. dopo pochi secondi rientra con una scopa di saggina in mano.
ora è solo agguerrito. appoggia la scopa alla parete, prende l'omino in braccio e lo porta nell'altra stanza.
poi torna e si rivolge decisamente a me.
inizia a sfiorarmi con la paglia della scopa. io, naturalmente, scappo, seguendo il muro.
vedo che ha chiuso la porta che conduce in corridoio e ha aperto quella verso l'esterno. il suo intento è chiaro: mi vuole buttare fuori.
cerco di resistere quanto possibile. ma non ci riesco.

mi trovo scopato fuori in terrazza come la polvere, sotto la pioggia battente, al freddo.

non mi muovo. lascio che la pioggia mi bagni tutto e si confonda con le lacrime.
ho osato e ho fallito.
ora sono al punto di prima. o forse peggio, perché rimango solo, ma con il gusto della felicità in bocca e nella memoria.
sono dolorante, non riesco più a rialzarmi. credo di essere svenuto.

la luce dell'alba mi rende cosciente di nuovo.
sono fradicio, mezzo ammaccato. ma vivo.
mi trascino sull'orlo della terrazza e guardo verso il basso.
c'è l'erba del giardino, vedo il pertugio della mia tana dietro il cespuglio.
ho solo voglia di tornare a casa, e di dormire finché la primavera non decide di essere più convinta.
ci sono tante pozzanghere scure, laggiù...
senza pensarci, mi faccio forza con le zampe posteriori e mi lancio.

dicono che da qualche parte ci sia sempre un salvagente pronto a non farti affogare.


dedicato all'intrepido coraggio e allo spiccato senso di pater familias del buon amico d.r., a cui ricordo quanto diceva plinio il vecchio: "mures incolae domuum sunt"