13 gennaio 2010

ribes

vidi un giorno una ragazza che dondolava per la città. sì, hai capito bene, ho usato il verbo dondolare. perché lei non stava semplicemente camminando, oh, no. lei si muoveva continuamente, prima a destra e poi a sinistra, e riusciva ad andare dritta. voglio dire, non era come l’andatura di un ubriaco. procedeva lungo la sua via, aveva un percorso ben preciso in mente, una meta insomma. ma per raggiungerla scuoteva la testa e il corpo, come se ascoltasse musica con le cuffie. no, non aveva cuffie alle orecchie, ho controllato. le passai accanto – dovetti aumentare di molto la mia andatura abituale - e la guardai di lato. niente cuffie. capelli raccolti in una coda, orecchie piccole, sorriso su labbra strette e rosse, occhi a fessura per mettere meglio a fuoco la luce. insomma, era il ritratto della felicità. mi sembrava che i suoi pensieri fossero sufficienti per vedere tutto bello, lucente, sereno, degno di essere affrontato. ti giuro, prima di quel giorno mai avevo incontrato una persona così, come posso dire, leggera? sì, leggera.

sì, lei si accorse di me. chiaro, per quanto fosse assorta nei suoi fantastici pensieri colorati, tuttavia non era completamente assente. si accorse di me e si voltò. mi guardò, senza interrompere la sua andatura, continuando a sbandare, sorridendo. io le camminavo accanto, come un cretino, la guardavo. non ho idea di che sguardo potessi avere, sicuramente assomigliavo ad un grande punto di domanda in giacca e cravatta. credo le sembrassi buffo. ad un tratto si fermò e mi parlò.

mi chiese se poteva aiutarmi. gentile, le risposi. ma no, non avevo bisogno del suo aiuto. e allora perché mi sta seguendo, mi domandò. domanda lecita, pensai. perché mi ha incuriosito. aprì gli occhi. erano enormi, verdi, rotondi. cosa l’ha incuriosita di me? ci pensai per qualche secondo, cercavo una risposta intelligente e adeguata. non la trovai e le dissi semplicemente: l’ho vista camminare strana, dondolava, e sorrideva dondolando. ti giuro, le dissi così, sai come sono io, non è che sia il tipo che si mette a parlare apertamente con gli sconosciuti, men che meno se si tratta di donne. eppure quel giorno mi sentivo forte, spensierato, curioso.
fece un gesto che mi ricorderò per il resto della mia vita. mi prese sottobraccio. te lo giuro su mia nonna. sottobraccio, come un vecchio amico, o un amante. avrei potuto essere suo zio, a dire il vero. zio e nipote sbandata, ecco cosa potevamo sembrare ai passanti che camminavano per quella strada in quel momento.
venga con me, prendiamoci un succo di frutta.

io non bevo succhi di frutta, ma lei me ne fece bere due. uno all’ananas e un altro al ribes. dolcissimo. partiamo dall’inizio. mi accompagnò in questo bar. era uno di quei posti moderni, bianchi, con mobili lineari, angoli acuti, riviste di design sul tavolo, oste con pochi capelli e gli occhiali piccoli e rettangolari. ordinò due succhi all’ananas. io odio l’ananas. se bevo qualcosa che non sia vino, mi faccio portare l’armagnac. succo all’ananas non lo bevevo da quando portavo i calzoni corti e giocavo a pallone usando gli alberi del parco come pali. eppure non osai contraddirla. mi teneva la mano, e dondolava giù per la sala, accompagnandomi ad un tavolino tra due porte.

bene, mi disse. bene, le risposi. siamo qua, continuò. così pare, apostrofai. avevo sete, si giustificò. io no, ma le faccio volentieri compagnia, continuai. può mangiare, mi venne in soccorso. preferisco bere controvoglia, risposi. le va bene l’ananas, domandò. penso di sì, accennai.

arrivò da bere. brindammo timidamente. sorseggiai quel liquido freddo, dolce e acidulo. mi domandò il mio nome e risposi educatamente. io mi chiamo anna stella, proclamò. annastella attaccato o staccato, completai interrogativo. cheglienefrega, commentò saggiamente. in effetti, mormorai. così vuole sapere perché dondolo felice per la città, arrivò subito al punto. mi giustificai farfugliando qualcosa che conteneva il ma-no-era-così-per-dire.

guardi, e aggiunse il mio nome pronunciandolo con attenzione (tremai), io sono felice perché non ho motivo di non esserlo in assenza di ostacoli evidenti. camminavo, c’era una bella luce, volevo salire su al parco, le mie gambe rispondevano ai miei comandi e trovavo il ronzio della città particolarmente melodico e adeguato a quel momento. pensa che sia pazza?

ti assicuro, avevo perduto le parole. non sapevo se fosse un sogno o uno scherzo. fissai i suoi occhi rotondi che mi stavano perforando e conclusi che era un sogno. eppure avvertivo distintamente il succo schifoso che attraversava il mio esofago e si depositava nello stomaco, mentre finivo il mio bicchiere in un goffo tentativo di prendere tempo.

ha ancora sete? annuii, meditabondo. fu così che ordinò il liquame al ribes. non parlò più. aspettammo che il cameriere tornasse e ci portasse la bevanda. mi misi a bere. quando finii quella robaccia fu come se si fosse rotta una diga dentro di me. le raccontai tutto, del lavoro nuovo, della casa non finita, dei vestiti di lei nell’armadio che non avevo il coraggio di aprire, del funerale di mia nonna, di te, che sei la persona di cui più mi fidi al mondo. insomma, furono decine di minuti di monologo. parlavo ai suoi occhi, che sembravano carta assorbente. condivideva con l’iride e le pupille, sentiva tutto, era una droga. ad un tratto non ebbi più niente da dire. ero esausto. lei si alzò di scatto e andò a pagare. non protestai, non ne avevo la forza. quando tornò da me mi disse: viene su al parco con me ad ascoltare la città dall’alto o sarà troppo occupato a riavvolgere il nastro che mi ha appena sbobinato addosso?

non aggiunsi altro. mi alzai dalla poltroncina bianca e la seguii.
scattoso

09 gennaio 2010

spiccioli

quant’è? cinquemila. troppo. troppo per te, ho la coda fuori dalla porta per quella cifra. non ci credo, ti offro duemila, ce li ho in tasca. non so cosa farmene dei tuoi duemila. ti devi accontentare, c’è crisi. no, tu sei in crisi, visto che hai solo duemila in tasca. senti, a me quel coso serve, ma non sono disposto a spendere cinquemila, è un prezzo fuori mercato. bello, sono io che faccio il mercato qui, se ti dico cinquemila significa che li vale. è il tuo ultimo prezzo? cinquemila? . bene, allora addio. addio.

sapevo che saresti tornato. ti offro quattromila. mica hai trovato da meno, in giro, eh? sì, ho trovato da meno, ma so che se dovessi avere problemi so come trovarti. eh, vedi, la garanzia e l’assistenza hanno un costo. appunto, ti offro quattromila sull’unghia. e io te ne chiedo cinquemila. dai, sono tornato da te apposta per chiudere la faccenda. ma la chiudiamo in fretta, basta che scuci cinque bei pezzi da mille e ci salutiamo. ascolta, io non ho cinquemila, arrivo a quattromila rinunciando ad un sacco di cose, tra cui il weekend romantico che avevo promesso a mia moglie. oh, poverino, dovrei commuovermi? non mi servono le tue lacrime, mi serve il tuo ok per quattromila e ci stringiamo la mano. amico? sì. quella è la porta, io non ho niente di cui parlarti a queste condizioni. sono sicuro che ci ripenserai. non ci ripenserò. vedremo.

come è andato il giro romantico? bastardo. è sempre un piacere incontrarti. senti, ti propongo un accordo. e perché dovrei ascoltarti? perché tu devi vendere, non puoi tenertelo lì a marcire. chi ti dice che non l’abbia già venduto? se l’hai fatto ti uccido. corro il rischio. l’hai venduto? diciamo che potrei essere in procinto di sbarazzarmene ad un prezzo più che ragionevole. cioè? settemila. prendi questa busta, ci sono cinquemila lì dentro, còntali, dammi l’arnese e poi non ti voglio più vedere. non hai capito che ora il suo prezzo è settemila? non bluffare, volevi cinquemila e ce li hai, ora basta. non sto bluffando, se rinuncio ai tuoi cinquemila adesso, tra un’ora ne posso avere settemila

[colpo di pistola, fumo, odore di bruciato, corpo che cade all’indietro, rumore sordo, sedia che si spezza]

[rimette in tasca la busta, corre all’armadio dietro al corpo ormai esanime, apre l’anta. non c’è niente. solo un biglietto: “mi hai ucciso per niente, l’avevo già venduto a diecimila il giorno prima che tu venissi da me la prima volta”]

[si siede, incredulo. prende il telefono, compone il numero veloce associato al tasto 2]

amore? sì, ciao, sono io. tra venti minuti sono a casa… sì, prepara pure… no, stiamo leggeri oggi a pranzo… sì, sto bene, è che non mi va di mangiare, mi hai detto che sto ingrassando e questa cosa me la sono segnata… sì, ti amo anche io… sì, raccontami, cosa ti è successo al supermercato?… ma sei sicura di non aver messo le monete in tasca senza accorgertene?… è difficile che la cassiera ti freghi con il resto, ma non si sa mai. comunque, non devi preoccuparti, sono solo spiccioli.

scattoso

02 gennaio 2010

vite

guardi l’orologio da tavolo e non riesci a distinguere i numeri. i cristalli liquidi sono sbiaditi e il pulsante per illuminarli emette una timida luce verdina che rende ancora più irriconoscibili le cifre. ragioni che forse è ora di cambiare le batterie. ne hai comprato un pacco da sei il giorno prima, erano in sconto. sollevi il piccolo apparecchio, indossi gli occhiali da lettura e ne esamini il retro. per accedere al vano devi prima smontare la base. provi a pensare al giorno in cui avevi tirato fuori quell’orologio dalla scatola e lo avevi montato. non ti ricordi i tuoi movimenti, si sono persi tra i gesti veloci che durano solo il tempo della consapevolezza dell’azione. inizi a spingere lo sportellino verso il basso, come indica la freccia stampata sulla plastica. senti dolore alle mani. ti fermi e te le guardi. sono mani da vecchio. non sono mai state grandi, appartengono ad una persona che nella vita ha solo studiato e fatto l’impiegato. riprovi. lo sportellino non si sposta di un millimetro dalla sua posizione di riposo. appoggi l’orologio sul tavolo, con il retro rivolto verso l’alto e lo guardi curioso, massaggiandoti i polsi. c’è un piccolo foro alla base dello sportello. ti avvicini e ti accorgi che dentro c’è una minuscola vite che lo fissa. ti serve un cacciavite sottile e lungo. ne avevi uno, tanto tempo prima, che usavi per le lenti degli occhiali. era piccolo e rosso. chissà dov’è ora. si sarà perso durante uno degli ultimi traslochi. già, trasloco. avevi lasciato la casa, con la c maiuscola, quella fatta e voluta assieme. quella, l’unica, con il giardino dove mettevi i tuoi limoni e le tue piante con i fiori dai colori accesi. avevate studiato ogni vano, ogni nicchia. ti ricordi la faccia dell’architetto quando avevi pronunciato la parola “nicchia”. non era cosa comune creare spazi inutili dentro i muri dove mettere una lampada e un vaso colorato. ti piacevano i colori. lei ti aveva contagiato. dipingeva quadri senza senso, solo pennellate cromatiche senza bordi né contorni. dovevi scoprire tu la forma, in funzione del tuo umore e grado di astrazione. lei diceva che proprio la non definizione del titolo dell’opera era l’obiettivo della sua velleità artistica. un titolo limita, racchiude, soffoca. tu l’assecondavi. in cuor tuo pensavi che chi non riesce a dare un titolo è una persona che non sa cosa sta facendo. ragionamento a posteriori. troppo facile. in ogni caso ora hai un problema. devi svitare la piccola vite che blocca lo sportello delle batterie e non possiedi utensili adeguati allo scopo. apri il cassetto delle posate, ma i coltelli hanno la punta troppo larga. niente da fare. apri altri cassetti, ma non c’è traccia di qualcosa di adatto. vai in bagno e cerchi all’interno del mobiletto. trovi rasoio, tubetti di dentifricio da viaggio recuperati in alberghi senza identità, un pettine di plastica marrone che non usi da quando hai deciso di tenerti i capelli quasi rasati. un blister di aspirine scadute. ti guardi allo specchio, di sfuggita. hai gli occhi spiritati e stanchi. il collo è pieno di rughe. il viso è spento. sei vecchio, solo, e non hai i mezzi per cambiare le batterie ad un orologio. torni in sala, recuperi un coltello e provi a forzare l’apertura. sollevi la plastica facendo perno sulla vite che rimane fissa al suo posto. intravvedi le due pile, ma non riesci a toccarle. rimetti tutto in ordine dai un’occhiata all’ora. in fondo si riescono ancora a vedere le cifre. non benissimo, ma con gli occhiali e la luce giusta non ci sono grossi problemi. rimetti il piccolo apparecchio sulla mensola e capisci che hai voglia di fumare. non dovresti, te l’hanno proibito con veemenza. cardiopatie, coronarie o qualcosa di altrettanto minaccioso. ripensi all’immagine del tuo volto allo specchio e apri la finestra accendendoti la sigaretta. c’è luce fuori. illumina il mondo che se ne va da solo. osservi bene, sbuffando fumo acre. quello che vedi è niente.

niente, appunto. deserto.

scattoso