29 dicembre 2009

ride

l’uomo che non si metteva il cappello nemmeno quando nevicava sbuffò alito gelato non appena uscì dalla porta del condominio. la temperatura era risalita dalle parti dello zero e il silenzio attutito della neve secca e pesante risuonava a volume nullo per il piazzale, la strada senza traffico e il canale poco distante.

qualche condomino, armato di pala e altruismo, aveva creato un passaggio stretto ma ben definito attraverso lo spiazzo. per girare attorno all’edificio e raggiungere il camminamento sull’argine, tuttavia, sarebbe stato necessario sprofondare i piedi fin quasi sotto al ginocchio e sperare di non perdere l’equilibrio.

il protagonista di questa storia, complici due o tre calici di barbaresco bevuti al buio in compagnia della voce di lucio dalla, puntò decisamente verso la neve. il cappotto era ben chiuso, le mani in tasca, le guance calde e i capelli ribelli. i primi passi furono incerti, lambiccavano la neve fresca affondando con rispetto. i successivi si fecero più sicuri, sebbene sempre più goffi e comicamente instabili. quando raggiunse l’argine, osservò l’acqua del canale, nera e gelida. nessuno in vista, si udiva solo il suono distorto di un’ambulanza che si allontana.

un cane passa, piscia e ride. le parole della canzone gli saltellavano in testa, mentre rabbrividiva, sbuffava e provava ad immaginarsi la risata di un cane che prendeva in giro un uomo malinconico alla fermata di un tram.

continuava a nevicargli addosso. si abbassò e raccolse una palla di neve con la mano. la strinse fino a farla diventare dura e compatta e la lanciò in acqua. plof.

si decise. il declivio dell’argine era illuminato dal lampione di fronte. non c’erano appigli visibili, solo un manto bianco e compatto. avanzò di un passo ma capì di non avere molte possibilità di rimanere in piedi. si sedette sulla neve e si lasciò scivolare in basso. a pochi centimetri dal canale si arrestò, rendendosi conto che qualsiasi movimento l’avrebbe spinto sott’acqua.

gli piaceva l’odore là sotto. un misto di muschio e legno bagnato. la corrente era veloce, evidentemente avevano aperto le chiuse. la neve era entrata sotto i pantaloni e iniziava a non sentire più le gambe.

la mia anima nel vaso, da una crepa vola via. gli apparve l’anima a forma di nuvola che si faceva strada attraverso la feritoia, conquistava il cielo e rendeva infinita la propria esistenza, trasportata dai venti.

i minuti passavano e lui non si decideva. si voltò verso l’alto e vide il segno del suo corpo che aveva scavato un passaggio verticale lungo il declivio. non c’era golena, solo una specie di gradino su cui aveva terminato la discesa. non sarebbe mai riuscito a risalire.

aiuto. troppo flebile era la sua voce. riprovò. niente. decise di gridare ad intervalli regolari, per concentrare al massimo l’aria. gli nevicava sugli occhi, sul viso, addosso al cappotto che ormai era quasi completamente bianco.

amico. amico. cosa fai.

si voltò e gli sembrò di vedere due occhi lucenti e un volto scuro. un indiano con un mazzo di rose.

stai bene. rispondi.

aiutami.

aspettami. ti aiuto.

un ladro di passaggio, con una certa cortesia, mi chiede “hai del fumo? sì. del fuoco? sì” e dopo il furto scappa via.

hai del fuoco. non scappare. ho freddo.

cosa dici?

niente. aiutami.

sì. sono qui.

non scendere, si scivola.

prima di chiudersi del tutto, i suoi occhi videro proiettili di ghiaccio, sempre più sottili, sempre meno percepibili, ovattati… poi il nulla.

si ritrovò disteso su una panchina. due persone gli erano a fianco. due facce scure e quattro occhi lucenti.

ecco qua. come stai. chiamo ambulanza? tu preso freddo. tu devi scaldare corpo.

annuì. si voltò di lato e vide un cane annusare un mazzo di rose gettato a terra.

un cane che passa e piscia. non ride. sorrideva invece l’uomo, senza volerlo, le gote congelate in una smorfia di lucida rassegnazione.

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11 dicembre 2009

pushback

c'è un villaggio, da qualche parte tra gli appennini, dove i giorni e le notti scorrono senza nessuno che se ne accorga.
l'ultimo abitante se n'è andato dodici anni fa, durante una tormenta di neve. ha caricato l'auto con le poche cose che gli erano rimaste da trasportare nella nuova dimora, ha acceso il motore, ed è sceso lungo i tornanti della strada ghiacciata. l'ultima curva, però, gli è risultata fatale. sarà stata la stanchezza, o forse il desiderio di essere già arrivato, di abbracciare sua moglie e di farci l'amore. tant'è che è andato dritto. i segni dei pneumatici sulla neve parlano chiaro: nessun segno di frenata o di scivolata, nessun estremo tentativo di correggere una rotta decisamente sbagliata. due linee parallele più scure che solcano il bianco, poi il dosso del colle, l'ombra che si stacca per qualche attimo da terra, il peso del motore.
l'impatto. il fuoco. l'esplosione.
l'hanno ritrovato una settimana dopo. pianti. urla. strazio. dolore di pochi, pensiero cupo in qualche altro.
oblio e nescienza dei rimanenti.
è estate, e la vecchia fiat si ferma nel mezzo dell'incrocio.
scende un uomo di media statura e con la barba. si guarda in giro. cerca un caffè, una sedia e un tavolo dove appoggiare il quaderno degli appunti.
niente. tutto chiuso. quello che doveva essere il bar ha la serranda chiusa e la scritta ‘totocalcio’ scolorata. sconsolato, risale in auto e si lascia per sempre quel posto alle spalle. è stanco di viaggiare, decide di rinunciare alla sosta e di puntare verso casa.
avrebbe voluto essere altrove.
un tardo pomeriggio di marzo stavo seduto bevendo tè zuccherato nella sala d'attesa dell'aeroporto kennedy.
guardavo fuori e c'erano nuvole minacciose che facevano risaltare il bianco e l'argento delle fusoliere degli aerei.
improvvisamente ci fu un lampo che rischiarò il piazzale, i trattori del pushback, le valige ammucchiate nei carrelli e sui nastri trasportatori, le tute gialle degli operatori addetti al controllo a terra e alla sicurezza.
la pioggia arrivò dopo pochi secondi. inizialmente fu un acquazzone intenso, che durò qualche minuto.
poi cessò del tutto. silenzio.
il vento iniziò a soffiare ad ondate, dapprima cadenzate in intervalli lunghi e intensi. poi sempre più frequenti, fino a diventare un unico grande getto d'aria che proveniva dall'oceano.
vidi una valigia gialla volare per venti metri, prima di sbattere contro un pneumatico di un boeing già carico di passeggeri.
a quel punto ero già in piedi e, come tutti quelli che erano nella sala con me, stavo appoggiato con la fronte al vetro.
l’annuncio arrivò poco dopo. aeroporto chiuso, voli cancellati fino a notte inoltrata. la compagnia aerea offrì un buono per un pasto al fast food. ci rinunciai. cercai una poltroncina in una zona poco affollata. provai a rilassarmi, facendo saltellare la mente tra sogno e percezione. mi ricordai di immagini lontane, verdi e soleggiate.
avrei voluto essere altrove.
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