19 marzo 2009

ausiliari

il capostazione di un piccolo paese di campagna se ne sta seduto alla sua scrivania, compilando moduli e appoggiando la matita sul mento.
dietro di lui, la planimetria elettronica delle vicinanze della stazione e le luci degli scambi si illuminano di verde e di rosso.
una campanella suona, annunciando l'arrivo di un treno.
non si sa se stia arrivando da destra o da sinistra. uguali sono entrambi i lati, si perdono all'orizzonte. l'unica differenza è la luce. più scura quello a est, più sovraesposta quello ad ovest.
è tardo pomeriggio di un'estate qualunque. una domenica sera.
pochi viaggiatori sono in piedi sui marciapiedi, in genere affollati di pendolari.

la donna di media statura con i capelli corti e chiari sulle orecchie piccole è in attesa guardando i binari.
si sente le gambe molli e fastidiose punture di spillo in testa.
partono dalla fronte e si estendono di lato, fino alla nuca, per poi penetrare verso l'interno, trivelle che scavano fossati esondanti di ricordi e di immagini mal riposte.
in realtà non sta solo aspettando un treno.
è in attesa di un risultato.

avevano parlato di accertamenti. senza specificare cosa dovessero accertare, se il falso allarme o la vera malattia.
le era venuto in mente l'aggettivo 'protocollato', che le era parso d'udire tra le pieghe dei discorsi di altri medici.
in quel momento aveva perduto conoscenza.
si era risvegliata molte ore più tardi, con la mente annebbiata e la lingua come allappata dal troppo tannino.
aveva deciso di partire, di stare da sola, almeno in quei primi momenti.
le avevano detto che sarebbero serviti venti giorni per sapere.

in quei giorni camminava senza meta. mangiava con poco gusto. stava seduta ore ad una panchina verde e sbucciata di un piccolo giardino appena dopo le ultime case del paese.
i pensieri saltavano dal passato con lui al futuro senza di lui. il presente, il qui e ora, rappresentava per lei solo un susseguirsi di attimi poco importanti, veloci, fastidiosi. si prometteva continuamente che se tutto fosse andato bene, gli avrebbe dedicato più tempo di quanto avesse mai fatto. l'aveva trascurato, soprattutto negli ultimi anni, quando il suo egoismo e la sua indecisione avevano annebbiato tutto il resto. non si era accorta del suo viso che a poco a poco si ingrigiva in maniera sospetta, dei suoi occhi spenti, delle sue guance più scavate.
la mente era piena di tutto quello che avrebbe dovuto essere, ovvero di quanto sarebbe potuto accadere.
troppe forme verbali ausiliarie di una realtà che invece era univoca, digitale, spietata.

ora sta tornando. ha capito che da sola semplicemente non ce la fa.
cerca condivisione, deve suddividere in parti più piccole la sua angoscia, deve ritrovare galleggianti e boe.
due ore prima aveva telefonato all'ultima persona della sua lista personale.
era colui che molti anni prima era stato tutto, era colui che la conosceva meglio.
era colui che aveva rifiutato per sempre.

quando aveva sentito la sua voce, gli aveva semplicemente detto 'ho bisogno di te'.
lui, come se si aspettasse quella telefonata, le aveva risposto 'vieni'.
con poche parole gli aveva accennato all'esame, al fatto che non riguardasse lei personalmente, anche se forse lo avrebbe preferito.
lui era stato in silenzio e poi aveva ripetuto 'ti ho già detto, vieni. ti aspetto.'

arriva un treno sferragliando. è sul binario opposto al suo.
il capostazione chiacchiera con il macchinista in un dialetto che lei non comprende.
la campanella continua a suonare.
poco dopo vede in fondo, verso destra, le luci di un'altra locomotiva che si avvicina lentamente.
ondeggia sugli scambi e si avvicina rallentando.
apre la porta dell'ultimo vagone. entra e si siede vicino al finestrino.
è sola.
il treno riparte.
ora è in mezzo alla campagna, ci sono nuvole nere e gonfie di pioggia calda.
lei continua a guardare fuori, affamata di immagini, di conforto e parole giuste.

tutti noi abbiamo in testa pochi semplici elementi che costituiscono il nostro quadro perfetto. lì dentro, lo sappiamo, non avremmo paura di nulla.

12 marzo 2009

cloro

una voce, piatta ma gentile, gli dice di accomodarsi un attimo.
una risposta silenziosa, col sorriso tirato di chi non sarebbe mai comodo solo per un attimo, sussurra 'certamente'.
era stata una convocazione rapida, inaspettata, perfetta.
ora sta aspettando, guardando le stampe alle pareti e le copertine delle riviste allineate sul tavolino.
il divano è morbido e odora di succo alla pesca. si sente ridicolo col culo sprofondato e le ginocchia un po' all'insù.
prova a sistemarsi, peggiorando la situazione. sente l'orlo dei pantaloni risalire verso il ginocchio, minacciando l'esibizione dell'elastico del calzino, invero alquanto consumato e tendente allo scivolamento verso il basso.

odia i colloqui. ne ha fatti pochi in vita sua, senza mai aver avuto grosse soddisfazioni.
aveva ottenuto un solo lavoro, non grazie alla peculiarità della sua retorica o alla magnificenza della sua esperienza professionale.
era stato il classico caso di amici-di-amici-di-parenti. di quel 'credo di ricordare suo padre' che dà sicurezza ma che, al contempo, puzza di mancanza di gloria. sensazione, questa di fondamentale assenza di meriti, che, in genere, raggiunge il suo apice con le classiche tre parole finali: 'me lo saluti'. 'certamente'.
appunto.
questa volta invece era tutto merito suo. aveva avuto il contatto tramite un'amica incontrata per caso: 'provaci, non ti costa niente'.
lettera classica, poche righe precise e senza enfasi. la risposta il giorno dopo, con la proposta di incontro.

davanti a lui passa un uomo basso e senza capelli. sta scrivendo un messaggio rapido sul telefonino, non si accorge nemmeno della sua presenza.
entra in una stanza buia e si chiude la porta alle spalle.
poco dopo, la segretaria dalla voce piatta gli porta un bicchiere d'acqua e un caffè non richiesto.
'il dottore sta finendo una riunione. nel frattempo, le ho portato un caffè'
'grazie. certamente'
certamente un corno. lui odia il caffè a stomaco vuoto. gli mette il nervoso e le coliche addominali, che aumentano all'aumentare del nervosismo.
lascia raffreddare il caffè e si bagna le labbra con l'acqua che sa di cloro.
improvvisamente si rende conto di non aver portato un taccuino per prendere appunti. da qualche parte aveva letto che durante i colloqui è sempre necessario avere i mezzi per segnarsi le cose. anche solo per fare disegnini, purché diano l'aria di interesse e di comprensione.
fruga nelle tasche della giacca e trova l'agenda. è salvo. gli manca la penna, ma è il male minore.
si alza in piedi e prende una rivista. parla di politica internazionale, di cina, di india, di venezuela. di strategia, di interviste, di visioni. di summit, di spirali, di terrorismo. di tutte le cose visibili ed invisibili.

una voce.
'mi scusi per il ritardo, mi segua, andiamo in una stanza tranquilla'
muto. annuisce.
'ha fatto difficoltà a trovare?'
'nnno, no, conoscevo la zona'. voce monotòna. pensa velocemente al cinguettio degli uccelli, per cercare di alzare il volume.
'prende un caffè?'
'no, grazie, già preso.' ecco, ora la voce è migliore, più sicura.
'bene, allora lo prendo io, torno subito, intanto si metta comodo e si sieda dove vuole'
dubbio. tavolo quadrato, enorme. cinque sedie per lato. opta per un posto centrale, poi cambia e si mette sull'angolo. si siede e pensa che se il suo interlocutore si dovesse sedere sulla prima sedia d'angolo dell'altro lato, sarebbero stati troppo vicini. trasla di un posto e aspetta.
ci sono penne sul tavolo, con il logo che aveva visto sull'insegna al piano terra. ne prende una e la prova su una pagina bianca dell'agenda.
torna l'uomo con il caffè fumante in mano. si chiude la porta alle spalle e si siede poco distante.
iniziano a parlare. domanda, risposta. commento, condivisione. battuta, risata. altre domande. poi la fatidica 'mi dica perché la dovrei assumere'.
silenzio.
già.
perché lo dovrebbe assumere?
non ci sono effettivamente motivi contingenti per farlo.
i requisiti per il ruolo sono soddisfatti in maniera appena sufficiente.
l'eccellenza è altrove, insomma.
lo guarda. si sta aspettando una risposta.
temporeggia. apre l'agenda, osserva gli appunti che ha preso negli ultimi venti minuti.
di-a-da-in-con-su-per-tra-fra.
tanto per scrivere qualcosa.
'perché questo posto mi fa sentire a mio agio'.
le parole gli erano venute di getto.
l'altro sorride.
'secondo lei io dovrei essere contento di un collaboratore che si sente a suo agio?'
'beh, sì, mi pare il minimo'
si alza. gira attorno al tavolo e si siede accanto a lui.
gli prende la penna dalla mano e scrive una cifra sotto le preposizioni semplici.
'questo è quanto le darei per farla sentire a suo agio'
il numero rappresentava tre quarti del suo stipendio attuale.
poi continua, riportando il doppio della cifra, subito sotto.
'questo, invece, è quanto le darei tra sei mesi se sarò io in grado di fornirle almeno tre altri motivi per i quali ho fatto bene ad assumerla'
si sente addosso un sorriso enorme.
strette di mano. sudata la sua, forte e secca quella dell'uomo.
è stordito. le ultime battute dell'incontro gli attraversano il cervello senza fare sosta per usi futuri.
formalità, tempistiche, accordi.
scende le scale a due a due. preme il pulsante apriporta che fa schioccare il metallo e gli dona il colore del mondo di fuori.

i teoremi basati sul sarebbe potuto o sull'avrebbe dovuto si fondano spesso su assiomi fatti di sogni distorti e di bende sugli occhi.

02 marzo 2009

agrume

si versa l'ultimo goccio che sporca il bicchiere con una riga rossa che discende di lato.
le caraffe da quartino, ordinate in multipli di due, rappresentano la perfezione rubizza di chi la coscienza ce l'ha fuori posto.
è la stessa persona che si chiede perché venga presa così sul serio mentre parla e recita copioni di dubbio valore.

è la stessa persona che spergiura di non competere con nessuno, dato che fa persino fatica a stare in piedi da sola.


si avvicina con gli occhi curiosi di chi ha perso l'interesse per tutto.

ha voglia di succo al tamarindo e di un bacio iperbarico sulle pieghe interne dell'orecchio.
desidera mordere un biscotto alla cannella e affondare i piedi sulla sabbia bagnata.
osserva le foglie larghe e pallide della pianta reclamare azoto e luce di sole.

la luce di sole si accende da sola, torna sempre dopo un giro di trottola del nostro mondo attorno all'asse che la trafigge tra gelo e gelo.
non occorre aspettare troppo per sentirne il sapore d'agrume. il tempo di chiudere gli occhi, sognare cose e persone già viste, fino ad aprire lo scuro sorseggiando un caffè.


la luce artificiale, gas o tungsteno eccitati da energie incanalate e costose, è fatta per chi rincorre improbabili appuntamenti al buio.
per chi tonifica il pensiero costruendo castelli di carte da tarocco, s'illude senza ammetterlo e nell'attesa è beato mentitore di se stesso.


è come la confondibile ma fondamentalmente opposta visione di chi cerca l'amore e di chi ha solo voglia d'amare.
è il gusto diverso, non giudicabile, di chi preferisce essere arrivato piuttosto che mettersi in viaggio.