07 novembre 2007

controsoffitto

masticava caramelle alascane
almeno così cantava l'avvocato di asti in prestito d'uso al jazz, mentre un barista scuro in volto e dall'occhio vigile come un gendarme delle banlieue gettava gli avanzi di un manhattan nel lavandino, nascosto tra bottiglie vuote e ghiaccio a cubetti dai lati vagamente concavi.
nel tardo pomeriggio, la città imperiale era immersa nel sole di un settembre color grano maturo.

seduto sopra un paracarro, pensavo agli affari miei
cinque persone erano appollaiate sui trespoli, sorseggiavano da bicchieri alti, sfiorando col naso la fetta di lime.
fumavano tutti, prelevavano sigarette da pacchetti dorati e le accendevano socchiudendo gli occhi.
il fumo si sommava e si elevava come unico fungo, si accartocciava addosso al controsoffitto di legno, per poi piovere nuovamente verso il basso, più rarefatto.

e le balle ancora gli girano
'would you mind if i sit next to you?'
non si poteva dire di no, almeno non poteva farlo l'uomo di media statura con la barba, ieri poco curata. anche se fino ad un attimo prima stava scrivendo, stava pensando alla musica, alla voce di paolo conte, e a tutti i derivati delle immagini che essa era in grado di produrre.
guardava l'importunatore. era un uomo alto, di età indefinibile, bello.
lo sentiva parlare. gli arrivavano addosso cornucopie di parole, di concetti asimmetrici, di visioni apocalittiche e di soluzioni semplici come bere un vodkamartini fumando tabacco virginia.

et alors, monsieur hemingway, ça va mieux?
lentamente, le frasi iniziavano ad essere campionate con frequenza aleatoria, perdendo significato, ma mantenendo il semplice suono, la modulazione della voce, l'aria vibrante tra particelle di nicotina.
doppia illusione, poco coraggio, demenza senile, trappola per topi...
atahualpa o qualche altro dio...

silenzio, brezza serale, esterno notte.
i binari della stazione del metrò si riempivano e si svuotavano come le pieghe di una grigia fisarmonica afona.
direzioni incerte lungo marciapiedi della prima periferia.
il pianoforte era nero, nell'angolo del bar in disuso dell'hotel.
moquette rosso bordeaux. tavoli sgombri di bicchieri. posacenere tozzi e vuoti.
la polvere sopra la coda del piano suonava silenziose melodie di note decadute.
la gola era secca, i passi pesanti, la stanza era dopo la porta a vetro, dietro al pianoforte, lungo un corridoio stretto e alto, illuminato a luce bianca, che sfumava e si confondeva, come un'eclissi di luna...

quando si volta, trova di fronte al suo sguardo liquido solo bagliori di luce inanellata.
aggiusta la testa sul cuscino, e sente la prima fitta.
rimane immobile. uno, due, cinque, dieci.
li sente, i secondi, passare. li riesce a scomporre in atomi di tempo pesante, che rotolano come solide sfere giù da un piano appena inclinato.
prova a muovere la mano. la sente scivolare attraverso le lenzuola.
i polpastrelli toccano il tessuto, attraversano piccole pieghe, ed escono.
si tocca il lato del naso con l'indice. esiste.